Identità Golose del 17/12/2022
Calabrese, di adozione romana, cura l'immagine di cuochi e pizzaioli come Bonci, Pascucci o Seu: «Quanti luoghi comuni sulla mia disabilità. Ma è un'opportunità».
Pochi giorni fa abbiamo partecipato a una cena ad occhi chiusi ai Tigli di San Bonifacio. Un evento illuminante, è il caso di dire, per una serie di motivi che abbiamo già riassunto. Una serata voluta con forza da Salvatore Vaccaro, comunicatore non vedente di cuochi e pizzaioli. Una persona di rara intelligenza e ironia. L’abbiamo intervistato.
Buongiorno Salvatore, qual è la sua storia?
Sono nato a Crotone, sono cieco dalla nascita. I miei genitori avevano capito che in Calabria non avrei avuto grandi opportunità. Allora mi hanno mandato a Roma a studiare al Sant’Alessio, un istituto integrato per non vedenti e normodotati. Ho fatto le medie lì, frequentato poi un liceo classico normale, diciamo così, e studiato Lettere Classiche all’Università Sapienza.
Come nasce la passione per l’enogastronomia?
Ho sempre seguito con attenzione il buon cibo. Nel 2005 ho conosciuto Gabriele Bonci, con cui è nata subito una profonda amicizia. Mi ha introdotto all’universo della cucina d’autore. Un giorno mi trovavo sulla spiaggia di Marina di Camerota. Gabriele mi telefona: ‘Ho bisogno di qualcuno che mi curi l’immagine. Chi meglio di un cieco può farlo?’, scherzava ma neanche troppo. Pensava che nessuno come me potesse dare voce al suo pensiero. Proviamo, vediamo che succede, risposi.
Com’è andata?
All’inizio ero perplesso e preoccupato. Da che parte comincio? Come faccio a occuparmi del lato social, delle fotografie e dell’aspetto visivo? Gabriele disse che avrei dovuto pensare ai contenuti e che mi avrebbe fatto affiancare da una ragazza del suo staff con competenze grafiche. Si chiama Irene. Ci sentiamo quasi ogni giorno, è un pilastro della mia vita.
Dunque è andata bene.
Per tanti anni abbiamo curato l’immagine di Bonci, e solo la sua. Gabriele mi diceva: tutti comunicano con le foto, ma un mulino che produce una farina di grande qualità merita molto di un servizio fotografico. Oggi pochissimi usano bene le parole. Ecco perché devi farlo tu. Nel tempo abbiamo raggiunto una simbiosi di pensiero tale che mi capitava di rispondere alle interviste al suo posto. Ho lavorato in via esclusiva per lui per 5 anni, senza altri clienti. Con un’eccezione: Gianfranco Pascucci (chef di Pascucci al Porticciolo a Fiumicino, ndr), grande amico di Gabriele. Oggi lavoro anche con un altro pizzaiolo, Pier Daniele Seu (Seu Pizza Illuminati, Roma). Agisco di cuore, collaboro solo con le persone con cui sento affinità d'istinto.
C’è uno stile dietro al suo lavoro?
Mi sono sempre tenuto lontano dal modello classico dei comunicati stampa. Se proprio devo farli, mi sforzo di assumere espressioni e punti di vista molto personali. Cerco di incontrare giornalisti e clienti il più possibile di persona. Voglio metterci sempre la faccia, capire che quello che racconto è vero, altrimenti non mi ci metto nemmeno. Non uso le sofisticazioni e non amo le cene stampa. Una volta un giornalista mi ha chiesto 4 panettoni gratis perché li doveva recensire. Glieli ho fatti pagare tutti. Lavoravo per Bonci, potevo permettermelo.
Come reagiscono di fronte alla sua disabilità?
Capita spesso che giornalisti, soprattutto quelli di una certa età, rimangano imbarazzati se non gelati. Che si è messo in testa, Bonci? pensano. Poi dopo un po’ vincono lo scetticismo.
Ci sono pregiudizi che le danno fastidio?
Sì, soprattutto quando il mio interlocutore sceglie di usare un linguaggio diverso solo perché ha di fronte una persona con una disabilità visiva. Io sono cieco, punto e basta, inutile cercare formule ipocrite o politically correct. Per me è normale dire ‘ci vediamo domani’ o 'curare l'immagine’; è un tabù assurdo evitare certe espressioni. Il punto vero è che in Italia abbiamo un problema di fondo nella gestione culturale delle disabilità. Io sono felice quando Gabriele o Gianfranco si dimenticano di porgermi il braccio per aiutarmi perché non vedono più la disabilità. Se ti poni di fronte a me non come a un non vedente ma come a Salvatore Vaccaro, allora io ho vinto e tu pure.
E il pietismo?
Capita, certo, di sentire persone che mi dicono ‘oh poverino, chissà come farai’, un’altra cosa insopportabile per me. O quelli che dicono: ‘tu sei meglio di chi vede’. Non è vero, non sono meglio di chi vede. Se ne avessi la possibilità vorrei vedere anche solo per un secondo. Ci sono anche quelli che chiedono a mia moglie: come hai fatto a sposare una persona che non vede? Uno le ha anche detto che mi ha sposato per interesse. Tutte assurdità. Sono diverso, certo, ma ho cercato sempre di trasformare la mia disabilità in opportunità. Per esempio parlando di cibo in modo diverso da quello che fanno gli altri.
A quale senso si affida di più nella valutazione di un piatto?
All’olfatto perché parto sempre dai profumi. Nessuno mangia più col naso: per capire se l’aglio in padella è bruciato oggi guardi il colore, ma sarebbe più semplice notarlo dall’odore. Credo che tutti dovremmo esercitare di più il naso: ti accorgi della sua importanza solo quando hai il raffreddore, quando perdi l’olfatto. Io vado a naso anche nei rapporti col cliente: cerco di andare subito nella sua cucina o nel laboratorio. E annuso.
Quali cuochi l’hanno impressionata di più dal punto di vista olfattivo?
Davide Scabin. Ha sempre prestato molta attenzione al naso, pure al momento del servizio. Ma anche Fulvio Pierangelini: servendomi la sua famosa Passatina di ceci con gamberi, mi chiese quale odore sentissi. Il giro d’olio messo a crudo, risposi. S’illuminò. Per me è importantissimo anche solo il profumo del basilico messo su una margherita. O la noce moscata che sprigiona da una lasagna calda. Sono dettagli trascurati ma fortemente identitari della cucina italiana.
Qual è invece l’identità olfattiva dei suoi clienti?
I piatti di Pascucci sanno immediatamente di iodio, mi ricordano le estati dell’infanzia a Isola di Capo Rizzuto. Le pizze di Seu sono straordinarie sui topping, mentre gli impasti di Bonci hanno profumi riconoscibilissimi, molto identitari. Al naso riconosco bene la differenza tra un impasto fatto col lievito di birra e uno col lievito madre. Un impasto lo fai con le mani, però, col tatto. Nessun senso come questo esprime sentimento per chi non vede. Per me, un abbraccio ha un valore fortissimo.
a cura di Gabriele Zanatta
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