lunedì 31 dicembre 2018

Comunicato stampa – Banche: online le audioguide per l’utilizzo degli ATM e dei Pos da parte delle persone non vedenti e ipovedenti

Giornale UICI del 31-12-2018

L’obiettivo è favorire l’accessibilità dei cittadini, in un’ottica fortemente inclusiva, nell’ambito del protocollo d’intesa tra Abi e U.I.C.I.

Semplici, immediate e con informazioni pratiche, sono le audioguide concepite per persone cieche e ipovedenti, che le agevolano nell’utilizzo degli sportelli automatici Atm e dei Pos.

L’iniziativa rientra nel quadro delle azioni previste dal protocollo d’intesa tra Abi – Associazione bancaria italiana e U.I.C.I. – Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti Onlus APS, per la realizzazione di attività congiunte e progetti sperimentali di informazione ed educazione finanziaria, ed è stata sviluppata con la collaborazione di Bancomat S.p.A. e con il Centro Nazionale del Libro Parlato di U.I.C.I.

Da scaricare online, le audioguide sono state realizzate con l’obiettivo di favorire l’accessibilità ai servizi e agli strumenti di pagamento indicati in un’ottica fortemente inclusiva, rispondendo così a specifiche richieste della clientela per operare in autonomia. Col processo di digitalizzazione in atto e il maggior ricorso alla “multicanalità”, gli sportelli automatici bancari e i terminali per i pagamenti con carte assumono infatti un ruolo sempre più rilevante nelle abitudini delle persone.

La prima delle audioguide intende delineare quelle che sono le caratteristiche dei principali componenti dell’Atm e delle funzioni che si possono attivare e, in particolare, rappresentare, lato cliente, le informazioni necessarie per eseguire le operazioni di prelievo, secondo quanto previsto dalle linee guida sulle Regole e Raccomandazioni di Accessibilità ai servizi Bancomat®; la seconda guida è destinata a chiarire i processi finalizzati ad un corretto utilizzo dei Pos con funzione di ricezione dei pagamenti da parte delle persone con disabilità visiva.

L’impegno del settore bancario in tema di accessibilità è in linea con le principali indicazioni contenute nell’Atto europeo sull’accessibilità – il cui iter a livello europeo è in fase di finalizzazione – e si sviluppa nell’ambito delle attività promosse dall’Abi per favorire l’inclusione finanziaria e sociale dei cittadini.

Le guide sono disponibili sul sito dell’Abi al seguente link:


e dell’U.I.C.I. www.uiciechi.it

Roma, 29 dicembre 2018

Coraggio e ironia per battere il buio, di BARBARA APICELLA

Il Giorno ed. Brianza del 24-12-2018

MONZA - OGGI è un uomo realizzato: a 35 anni ha un lavoro che svolge con passione, una fidanzata che ama e con la quale convive, tanti amici e giornate frenetiche. Luca Aronica non si ferma mai, anche se la sua vita da ventidue anni è completamente al buio. Tenebre che non hanno spento la sua passione, la sua voglia di realizzare i sogni che nel corso degli anni si sono dovuti inesorabilmente adattare alla sua condizione. Luca, oggi presidente dell'Unione italiana ciechi e ipovedenti di Monza e Brianza, ha deciso di raccontare in un libro la sua vita dove lentamente le luci si sono spente. Si intitola "Tarcisio il talpone" (edizioni Effegi) il libro autobiografico, scritto per mano della fidanzata Antonella Inga (ipovedente), rivisto dalla professoressa Paola Borin insegnante al Martin Luther King di Muggiò, con la copertina ironica realizzata dalla studentessa Laura Ferrarese, dove Luca ripercorre i momenti principali di un'esistenza senza luce e senza colori che oggi lo hanno reso un uomo felice. «VOGLIO inviare un messaggio di incoraggiamento a chi sta attraversando il mio stesso percorso di vita - spiega -. Non è tutto perduto, anche se siamo ciechi. Dobbiamo rimboccarci le maniche e trovare dentro di noi la forza per realizzare i nostri sogni». Più facile a dirsi che a farsi. Lo sa bene il monzese, oggi operatore shiatsu, che però a 13 anni voleva diventare geometra. Era un ragazzino quando arrivò la diagnosi infausta di retinite pigmentosa: era condannato a una vita al buio. «All'inizio non lo accettai - continua -. Cercavo di mascherare le mie difficoltà visive, mettendo persino a repentaglio la mia vita. Come quella volta che, malgrado la vista fosse affievolita, guidai il motorino e finii rovinosamente a terra. A quel punto capii che era giunto in momento di dare una svolta». Non è stato facile, soprattutto con i compagni di scuola. «Studiavo all'Istituto professionale dei Salesiani di Sesto San Giovanni - continua -. Prendevamo in giro il rettore, quel don Tarcisio che aveva problemi di vista e indossava occhiali con le lenti spesse. Dall'oggi al domani iniziarono a prendere in giro anche me». Se Luca Aronica oggi è un uomo indipendente e realizzato, che promuove progetti di inclusione sociale per i bambini e i ragazzi con disabilità visive, lo deve ai suoi genitori e ai suoi amici. «Tra i momenti più delicati di questo percorso quello di rivolgermi all'Unione italiana ciechi - ricorda -. Fui spinto da mia mamma e oggi la ringrazio per questo incoraggiamento». MA NON SOLO. «Ho ricominciato a sciare - prosegue -. Ad andare in barca a vela, in tandem; ho aperto la mia attività di operatore shiatsu, vivo in totale autonomia con la mia fidanzata, viaggio, mi diverto». Con questo libro il messaggio va a quei ragazzi che si sono appena addentrati nello stesso tunnel e ai loro genitori. «State vicini ai vostri figli, aiutateli a recuperare autostima», conclude. Parte del ricavato della vendita del libro sarà devoluto alla Polisportiva FreeMoving fondata nel 2016 da Luca e Antonella per avvicinare le persone disabili al mondo dello sport, e all'Unione ciechi di Monza e Brianza per l'acquisto di materiale tecnologico per uso scolastico per i bambini e ragazzi non vedenti. Per richiedere una copia del libro inviare un'email a tarcisioiltalpone@gmail.com. © RIPRODUZIONE

Oney, il lanciatore che illumina il buio

Avvenire del 28-12-2018

È stato un altro anno carico di soddisfazioni per l'azzurro Tapia, campione europeo paralimpico nel disco e nel peso: «Ho perso la vista, non la capacità di vedere col cuore. Ho vinto la mia sfida più grande, quella con me stesso: ma non mi sento Superman, mi ispiro a san Francesco. Vado nelle scuole per dire che c'è sempre una luce in fondo al tunnel. Le mie figlie sono i miei occhi sul mondo».

BREMBATE DI SOPRA (BG). Di buon mattino è già in pista, e in questo periodo, si sa, allenarsi all'aperto significa sfidare temperature molto rigide. Ma ci vuole ben altro per fermare Oney Tapia, il gigante buono dei lanci (del disco e del peso), volto noto del mondo paralimpico, la cui storia parla da sola. Centonovanta centimetri di potenza e coordinazione, nato a Cuba e naturalizzato italiano, un incidente fortuito nel 2011 l'ha privato della vista. Eppure è stato paradossalmente quello il trampolino per crescere e affermarsi nello sport ai massimi livelli.

Al centro sportivo di Brembate di Sopra (Bergamo) il disco è gelido di questi tempi. Ma basta immergerlo nell'acqua calda per ridare a Tapia quel sorriso inconfondibile con cui si alza e va a dormire felice ogni giorno. Il tepore che sprigiona nelle sue mani possenti il disco riscaldato dà il via a quella rotazione tipica che culmina nel lancio. Sembrano passi di danza. «È vero conferma il suo allenatore e mentore, Guido Sgherzi - non a caso si dice che un buon discobolo è anche un bravo ballerino». E non stupisce dunque allora che la danza sia per Tapia una passione da sempre, un talento che ha messo in luce anche a Ballando con le stelle, la trasmissione televisiva che ha contribuito alla sua fama: «È stata una bella esperienza per dire a tutti i disabili di non arrendersi mai e per far conoscere di più il mondo paralimpico ». La quotidianità invece è fatta di tanto sudore. Si allena dalle sei alle nove ore al giorno ed è questo il segreto a 42 anni delle sue vittorie. Nel 2018 ha fatto un ulteriore balzo in avanti riconfermandosi campione europeo del disco portando il primato mondiale (già suo) a 46,07 metri. Agli Europei si è anche preso la medaglia d'oro nel peso ad arricchire un palmares in cui spicca l'argento nel disco ai Giochi paralimpici di Rio del 2016.

Una carriera folgorante e in continua ascesa sebbene l'appassionante autobiografia uscita di recente Più forte del buio. Niente può fermare i sogni (HarperCollins, pagine 232, euro 18) cominci con una sconfitta: il tredicesimo posto ai Mondiali del 2015: «Per me le sconfitte sono l'anticamera delle vittorie, l'input per guardarsi dentro e ripartire di slancio». Lui del resto è uno sportivo sin da quando era bambino: «Non è stata facile la mia infanzia a L'Avana. Sono cresciuto in un quartiere in cui dovevi fare i conti con la malavita e praticare sport era necessario per difenderti: così ho cominciato col pugilato. Vengo da una famiglia numerosa e sin da piccoli abbiamo dovuto lavorare. Ma posso dire solo grazie ai miei genitori perché in quel contesto difficile sono riusciti a tirarci su come persone oneste senza mai cedere alla violenza: siamo stati tra i pochi di quel quartiere a non vedere le sbarre della prigione ». A Cuba giocava anche a baseball, sport che ha continuato al suo arrivo in Italia nel 2003 prima di cimentarsi anche nel rugby. Ma la sua professione è sempre stata quella di giardiniere e sarà proprio un incidente sul lavoro a stravolgergli la vita: nel 2011 mentre potava un albero molto alto viene colpito in pieno volto da un grosso tronco. La corsa in ospedale si conclude con un referto spietato: Oney non potrà più vedere. «Ricorderò sempre quel dolore atroce: al Niguarda di Milano ho subìto otto interventi per occhio. Di colpo tutto intorno a me divenne scuro come un unico sonno senza fine. All'inizio non è stato facile. Poi ho capito che dovevo reagire e andare oltre». Così giorno dopo giorno è venuta fuori la tempra del guerriero capace di sconfiggere anche il buio «addomesticandolo ». Decisiva allora è stata anche la chiesa: «Era il luogo del conforto dove sfogavo il mio dolore, mi accorgevo di uscirne più leggero e mi aiutava a non trasmettere negatività agli altri. Ascoltavo anche la Messa imparavo le canzoni, poi tornavo a casa le cantavo nel buio; le usavo per tenere lontane le paure. Devo ringraziare anche a mia madre, la mia compagna e la sua famiglia che sono molto cattolici». Lo sport è stato uno straordinario volano, anche se in pedana ci è arrivato quasi per caso: «Non sono stato io a scegliere il disco, ma è stato lui a scegliere me. La Omero Bergamo la società con cui mi allenavo in quel periodo nel judo mi ha suggerito di provare con i lanci ed è stato un colpo di fulmine anche grazie al miglior allenatore in circolazione ». Sgherzi si schermisce: «A fare la differenza è stata la sua determinazione: ce l'avessero tanti atleti normodotati avremmo molti più campioni».

Dietro ogni successo c'è serietà e lavoro per questo è difficile per Tapia scegliere quale sia il più importante: «Ciò che conta è aver vinto la sfida più grande, quella con me stesso e il mio limite. Ma non mi sento Superman. Mi ispiro invece a san Francesco d'Assisi. Vorrei dire a tutti che una luce in fondo al tunnel può sempre accendersi e illuminare il nostro cammino. Per questo vado nelle scuole. Ai ragazzi dico che la vita ti mette alla prova, ma nonostante sconfitte e cadute bisogna lottare e mettersi in gioco per ottenere dei risultati. Chi si arrende, perde prima di cominciare.

Todo en la vita se puede: basta volerlo». Non c'è spazio per i rimpianti: «Certo l'ultima mia figlia è nata poco dopo l'incidente. Per un papà essere privato della gioia di guardare mia figlia negli occhi, di vederla muovere i primi passi nel mondo, è stato un boccone durissimo da mandare giù. Ma il suo arrivo è stato comunque una spinta a reagire. E anche con le altre due figlie ciò che non ho potuto fare più da non vedente l'ho compensato con altro. Le mie tre figlie sono oggi i miei occhi nel mondo». Lo dice con quel sorriso che non lascia scampo a dubbi: «Mi sento anche fortunato rispetto a tanti disabili. La vista a volte può essere un limite, perché non ti fa andare oltre le apparenze. Io ho perso gli occhi ma non la capacità di vedere col cuore. E il sorriso o una risata ha un potere grande: butta giù i muri. Scherzo anche su me stesso, altrimenti tanti avrebbero paura di interagire con me. Per cui sono io il primo a dire "Ci vediamo dopo" o "Dove sei che non ti vedo" "Ragazzi vi vedo bene oggi"... Se c'è infatti qualcosa che non sopporto è il pietismo».

La strada dei sogni porta ora a Tokyo 2020: «Ma prima ci sono i mondiali a Dubai l'anno prossimo. Un obiettivo per volta. Grazie allo sport riesci a tirare fuori tutte le virtù. Spesso invece ci facciamo paranoie inutili. Oggi posso dire che ciò che ho vissuto non è stata una tragedia, ma una benedizione. È questo il regalo più bello che mi ha fatto la vita: mi ha insegnato a coltivare la forza e la speranza. E mi ha dato la prova che si può anche ballare al buio ed essere felici, sapendo che in quel buio risplendono le stelle».

di Antonio Giuliano

Tecnologie e didattica inclusiva: essere padroni del proprio destino, di Franco Lisi*

Superando.it del 20-12-2018

Ruota attorno a una proporzione («La tecnologia sta alla didattica come la tiflo-informatica sta alla didattica inclusiva») questa ampia riflessione di Franco Lisi, che scrive tra l’altro: «Ci sarà integrazione totale quando gli studenti saranno tutti individualmente liberi, non prigionieri cioè dei propri limiti fisici, ma soprattutto dei limiti dei propri pensieri, della propria mente. Solo allora potremo sostenere che avranno raggiunto la piena integrazione sociale e inclusione scolastica; solo allora potremo apprezzare gli effetti di una didattica inclusiva».

Il focus di questa riflessione è detto rapidamente: la tecnologia sta alla didattica come la tifloinformatica sta alla didattica inclusiva; questa è la proporzione che cercherò di indagare nel ragionamento che segue. Partiamo dal primo estremo: la tecnologia.

Tecnologia e scuola.

Non ci siamo stancati di ripetere che questa società dell’informazione, della “tecno-lo-crazia”, porta con sé grandi, grandissime contraddizioni. Per buona sorte esistono sempre gli opposti: come il freddo trova il suo contrario nel caldo, l’ingiusto è bilanciato dal giusto, al disonesto corrisponde l’onesto, così, tecnologicamente parlando, gli effetti dell’ecumenico diluvio di bits mescolano e alternano aspetti di diverso segno: eccesso, esasperazione, frenesia, volatilità, spreco, impigrimento, dipendenza, discriminazione, esclusione; e ancora: abbondanza, precisione, efficacia, opportunità, qualità, utilità, condivisione, inclusione. Parole, e-mail, documenti, animazioni, comandi, popolano display di ogni tipo: schermi di computer, di palmari, di smartphone, di tablet, di barre Braille, invadono dalla mattina alla sera le nostre giornate, illudendoci di tessere nuove relazioni umane, mettendo spesso di fatto in discussione quelle poche che si danno per scontate di avere.

Il mondo della scuola, naturalmente, non è immune da questa pervasività e ne rimane a sua volta largamente contaminato, tant’è che i più disparati dispositivi tecnologici costituiscono ormai l’estensione dei banchi di classe.

È solo di una ventina d’anni fa la dichiarazione di Bill Gates che nel 1994 sentenziava: «Verrà un giorno, e non è molto lontano, in cui potremo concludere affari, studiare, conoscere il mondo e le sue culture, assistere a importanti spettacoli, stringere amicizie, visitare i negozi del quartiere e mostrare fotografie a parenti lontani, tutto senza muoverci dalla scrivania o dalla poltrona». E proseguiva: «Lasciando l’ufficio o l’aula scolastica, non ci staccheremo dalla rete in quanto il computer sarà più di un oggetto da portare con noi o di uno strumento da acquistare: sarà il nostro passaporto per una nuova vita mediatica».

Anche al cospetto di questa moltitudine di condizionamenti, si misura quindi inevitabilmente l’integrazione sociale e l’inclusione scolastica dei ciechi. Sì, persino il modo di fare scuola fa slalom entro questo percorso obbligato, sbandando un po’ qua e un po’ là, tenendo talvolta a stento la corsia; perché non è possibile neppure in tale àmbito prescindere da ciò che è tecnologico: ogni interazione è basata sulla varietà delle fonti, sulla trasmissione di immagini/video mediante l’utilizzo di proiettori, enormi schermi ad alta risoluzione, sofisticate lavagne elettroniche; ne consegue che la comunicazione verbale e paraverbale, ormai relegate rispettivamente al 7% e al 38%, perdono di valore, diminuiscono di efficacia e di incisività. La trasmissione degli insegnamenti avviene in prevalenza tramite elementi di comunicazione visiva che oggi costituiscono il restante 55% nel panorama delle relazioni.

La didattica.

Ora andiamo sull’altro versante della nostra proporzione, l’altro estremo, dove il termine didattica sta a significare, nella sua accezione più stringata, basica ed elementare, la modalità di insegnamento, come faccio scuola, a quale metodo ricorro, di quale strumentazione/mezzo mi servo per insegnare. Qui, la didattica, l’insegnamento appunto, si appoggia sulla strumentazione tecnologica moderna per guadagnare e onorare il proprio scopo, che sempre più, a sua volta, privilegia il canale visivo: slide, piattaforme di e-learning e documenti multimediali, per altro, in gran parte non accessibili.

Fin qui non incontriamo particolari problemi, perché la tecnologia è un mezzo di comunicazione generalmente di facile acquisizione e di agevole apprendimento da parte del ragazzo che vede; essa infatti – implicando semmai strategie e metodologie differenti nel momento dell’erogazione degli insegnamenti – affida agli operatori scolastici la responsabilità di ripensare i contenuti e di rimodulare i programmi. “Questioncelle”, comunque, che fanno leva sulla preparazione, sull’aggiornamento professionale, sulla passione, sul dovere del singolo docente.

A tal proposito, gli esperti di “cose di scuola” ci dicono che «non è più tempo di lezioni frontali», che «il maestro-professore deve alzare il “sedere” dalla cattedra, rimboccarsi le maniche, andare in mezzo alla classe». «Il maestro-professore – continuano – deve avviare un rapporto-relazione a contatto fisico con i ragazzi, deve stimolare attività ed esercitazioni pratiche all’interno dei gruppetti di lavoro precostituiti».

La riduzione delle distanze tra docente e classe e fra i compagni, ancorché favorisca il coinvolgimento nelle attività di gruppo, la socializzazione, l’intrecciarsi di aumentate relazioni nella collettività degli studenti, maschera il rischio reale che il ragazzo con disabilità continui a rimanere isolato, in quanto dotato di strumentazione specifica, esclusiva e, possibilmente, non escludente.

Esempi di “solitudine tecnologica”.

Alcuni esempi del passato ci aiutino ad allontanare lo spettro della “solitudine tecnologica”.

Il picchiettio monotono, costante, distraente della macchina per scrivere induceva il docente di turno, attorno agli Anni Ottanta, a smorzare l’assordante frastuono, retrocedendo l’allievo cieco dapprima dalle file davanti fino all’ultima, per poi girargli il banco verso il muro in fondo, per terminare infine la corsa fuori dall’aula, almeno per il tempo dei compiti in classe.

Sempre in quegli anni è memoria uditiva di molti il ronzio dell’optacon che costituiva un vero e proprio tormentone per i compagni più indifferenti e per i docenti più insofferenti. Che cosa non si escogitava nei periodi successivi per “soffocare a morte” lo tsunami delle onde sonore delle stampanti Braille di cui erano dotate le nostre ingombranti postazioni informatiche! È indelebile l’umiliazione di chi è stato privato del monitor, perché «non ti serve, tanto non ci vedi» oppure di chi, in assenza dello screen reader per “indisponibilità di fondi”, ha dovuto cimentarsi sulla tastiera del computer scrivendo al buio, alla stregua di come si faceva con la macchina per scrivere tipo Olivetti di molti anni prima. Versioni di sistemi operativi e applicativi obsoleti o non aggiornati, installazioni e configurazioni di software e di ausili di tiflo-informatica approssimativi e non personalizzati, la voce roca del compagno sintetizzatore, sono altri pochi esempi di come la presenza di un set di strumentazione tecnologica non gestita, subìta o presa in carico con scarsa consapevolezza, possano rappresentare e dar luogo ad una sorta di involuzione nel processo inclusivo. Dobbiamo evitare, cioè, di erigere attorno al ragazzo un muro, una barriera, che stronchi di fatto sul nascere ogni potenziale modalità di relazione, disincentivando persino quella dialogica, unità elementare e fondante della più autentica forma di integrazione sociale.

La tecnologia e l’inclusione scolastica.

L’inclusione scolastica delle persone con disabilità non può, in ogni caso, prescindere dall’apparato tecnologico, indispensabile per il compimento pieno della sua realizzazione e quando allora si accosta il termine inclusione alle parole didattica e tecnologia, è opportuno fare una brusca frenata per proporre qualche ulteriore spunto di riflessione.

Molte delle persone ipovedenti e non vedenti – 285 milioni nel mondo di cui 19 milioni sotto i 15 anni – non hanno ancora ricevuto soluzioni efficaci dai dispositivi tecnologici sviluppati finora. Mentre gli educatori sanno generalmente individuare le tecniche più congeniali per far comprendere al gruppo-classe ciò che stanno insegnando, le cose cambiano quando di contro introduciamo ausili specifici che aiutano a declinare e a veicolare gli insegnamenti rispondenti alle necessità dei singoli.

Per l’insegnamento della scrittura ad esempio, se per l’uso della penna si applicano strategie didattiche ormai consolidate, quando lo si fa mediante il codice Braille, occorre avvalersi del necessario apparato strumentale e di una didattica specifica che deve essere in possesso del formatore perché questi trasferisca le tecnicalità in modo efficace e in tempi adeguati. Parimenti, lo stesso dicasi relativamente al differente rapporto con la didattica che si evidenzia nell’introduzione della tecnologia: una cosa è l’insegnamento dell’uso del computer per tutti gli allievi, diverso è l’insegnamento del computer dotato di tecnologia assistiva.

Se operazioni quali la condivisione del materiale, l’autonomia nella manipolazione di documenti, nella produzione di file, nella navigazione in internet, risultano essere attività di facile svolgimento per l’allievo che vede, per i nostri ragazzi, come per il Braille, occorre sviluppare i prerequisiti e le giuste condizioni, per poi impostare un percorso d’insegnamento della materia che abbia ragionevole possibilità di soddisfazione per il docente e per il discente.

Prima di essere mezzo (uno strumento, un canale attraverso cui far transitare i contenuti), l’uso della tecnologia per chi non vede è un fine, un obiettivo da perseguire con determinazione, impegno e avvedutezza; quindi bisogna valutarla, accertarne il grado di accessibilità, analizzare il contesto, concordare e scegliere le soluzioni tecnologiche più idonee alle caratteristiche del ragazzo, adeguarla al fine delle esigenze scolastiche, acquisirla (comprarla), individuare tempi e luoghi per la proposta didattica, installarla, configurarla, insegnarla, mantenerla aggiornata: questo non è il gioco dell’oca (butto i dadi, c’è un finanziamento e qualcosa succederà), è tutto molto più serio, giochiamo sulla pelle dei nostri ragazzi. Ciò richiede infatti non solo energie, sforzi, passione e competenze specifiche negli operatori, ma anche una compartecipazione consapevole, proattività da parte dell’allievo nell’intero processo; parliamo di insegnare una materia aggiuntiva: prima di essere tramite, un ponte, la tecnologia assistiva è uno scopo, un obiettivo da pianificare e da conseguire.

Tastiera e barra Braille.

Utilizzo di un computer tramite barra Braille

Indubbiamente, l’ultimo quarantennio è stato caratterizzato da una sete di innovazione tecnologica che ha interessato anche il mondo della disabilità; nel nostro ragionamento, ogni cieco è stato, suo malgrado, bersagliato da corsi lampo di alfabetizzazione informatica e in qualche modo destinatario di una postazione tecnologicamente attrezzata; non importava perché, non importava con quale tecnologia o con quale applicativo e con quali risultati: erogare formazione, questo l’imperativo!

Ciò che è stato ed è oggi ancora di forte criticità – e al riguardo non sono stati fatti significativi passi avanti – è l’assenza pressoché totale della “tiflo-info-didattica”: per quale scopo insegnare? Cosa insegnare? Con quale ausilio insegnare? Come insegnare? In poche parole, dobbiamo scongiurare un altro rischio, per altro verificatosi sin troppo spesso, quello cioè di istruire sommariamente l’allievo con disabilità visiva, senza renderlo in realtà autonomo nell’uso quotidiano della strumentazione informatica, inducendolo a rinunciare al suo utilizzo. Occorre evitare di trasformare il computer in un’automobile impossibile da guidare!

La tifloinformatica

Sebbene la tiflo-informatica, terzo termine preso in esame nella nostra proporzione, vanti una lunga esperienza e una corposa letteratura, chi ha vissuto l’evoluzione della tecnologia assistiva di questi anni, in qualità di istruttore o di utente, sa che nei corsi di informatica vengono proposte solo alcune delle numerose combinazioni hardware e software dell’intero ricco panorama disponibile.

Le trasformazioni sociali conseguenti alla pervasività tecnologica richiedono competenze digitali per lo più solo di prima alfabetizzazione per un coinvolgimento attivo nel processo di cambiamento in atto. Prova ne è che l’accelerazione della diffusione della tecnologia in ogni àmbito della nostra vita (nelle istituzioni scolastiche, nel mondo del lavoro, nei servizi pubblici) è stata favorita dall’abbattimento dei costi e dalla semplificazione dell’interfaccia utente. Due elementi che, per un verso, hanno permesso indistintamente ad ogni cittadino di possedere un dispositivo tecnologico, dall’altro, hanno impedito di fatto a una significativa fascia di potenziali utenti di fruirne direttamente e in modo proficuo. Infatti, disegnare interfacce amichevoli di facile comprensione e di immediato dominio significa, quasi sempre, esaltare il senso della vista; significa, quasi sempre, progettare aprioristicamente solo per una determinata categoria di utilizzatori; significa, quasi sempre, creare a posteriori il fenomeno del digital divide [“divario digitale”, N.d.R.]. Poter acquistare con relativa facilità qualsiasi oggetto a valenza tecnologica non equivale automaticamente ad averne piena padronanza. Progettare strumentazione accessibile comporta, fin dal momento dell’ideazione, porre attenzione e analisi particolari relativamente alle interazioni tra i fruitori e il dispositivo, alle modalità di attivazione e di controllo di ciascuna funzione, al livello di usabilità dei dispositivi in ciascun loro aspetto. Più persone saranno messe nelle condizioni di “manipolare” e trarre un qualche beneficio dalle prestazioni del prodotto, maggiore sarà la sua divulgazione nel mercato globale e minore sarà il gap (o divario) tecnologico, vale a dire la distanza qualitativa e anche quantitativa di sviluppo tecnologico esistente fra Paesi, fra categorie di persone, fra settori di attività diversi.

Accatastare tuttavia materiale tifloinformatico sul banco di scuola in mancanza di un progetto compiuto può risultare motivo di ansia, frustrazione e suscitare senso di inadeguatezza nell’allievo con disabilità. A fin di bene, e in buona fede, si rincorrono tutti i contributi disponibili per accaparrarsi questo o quell’ausilio, senza che a monte sia stata effettuata una qualsiasi valutazione qualitativa circostanziata. La scelta degli ausili di tecnologia assistiva dev’essere invece ricompresa nell’àmbito di un’analisi complessiva, che tenga conto della coerenza dell’usabilità della strumentazione individuata in rapporto al grado di accessibilità del sistema tecnologico integrato e al progetto formativo da realizzare. Un display Braille, un OCR [riconoscitore ottico dei caratteri, N.d.R.], un software per la matematica nasconderanno un vero e proprio spreco di danari, se inseriti all’interno di un’infrastruttura telematica sviluppata attorno a videoproiettori, filmati, slide e apparecchiature non accessibili! E l’inutilità sarà certamente conseguente, in assenza di competenze tiflo-tecniche e tiflo-tecnologiche capaci di integrare e adattare tecnologie differenti, ma anche di massimizzare e veicolare flussi di informazioni per lo scopo prefissato. I risultati attesi, inerenti ad un’effettiva inclusione e agli obiettivi formativi predeterminati, saranno scarsi, deludenti ed erroneamente fatti ricadere sull’incolpevole studente con disabilità.

Quanto più vi sarà dunque convergenza fra i molteplici adiacenti fronti interessati e coinvolti, tanto più si raggiungerà il maggiore grado di accessibilità, ovvero:

a) l’oggettività delle regole dettate dalla normativa vigente dovrà essere conosciuta, condivisa, fatta propria e applicata dai progettisti e dagli sviluppatori di tecnologia, dai formatori e da tutti coloro che, a vario titolo, si occupano di comunicazione e sono responsabili della distribuzione dell’informazione;
b) le competenze tiflo-tecniche, tiflo-informatiche e tiflologiche dovranno ritrovare nella preparazione dell’esperto docente di informatica la capacità di leggere, interpretare e codificare l’ineludibile soggettività che sussiste nel rapporto tra fruitore e usabilità dello specifico strumento tecnologico;
c) la promozione, la pubblicità, la scheda tecnica di assemblaggio della componentistica e il manuale utente di un qualsiasi dispositivo dovranno muovere da valutazioni e da validazioni fondate su metodi scientifici di rilevazione di accessibilità e usabilità.
Spero, mi auguro, sono convinto che in particolare per quest’ultimo aspetto l’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e le strutture ad essa collegate sapranno sostenere sui versanti tecnico e politico un percorso che condurrà alla formalizzazione di un sistema di certificazione normato e autorevole. In tal senso, la stretta collaborazione con le autorità competenti, con i produttori, i fornitori e i vari portatori d’interesse caratterizzerà una prospettiva che nel prossimo futuro consentirà di varcare nuove frontiere ed esplorare sorprendenti scenari nelle interazioni uomo-macchina-disabilità.

Proposte formative.

Per tracciare ulteriormente il perimetro entro il quale si articola il nostro ragionamento attorno all’accessibilità, alla tiflo-informatica, alla tiflo-info-didattica e alla didattica inclusiva, occorre prendere in considerazione altre determinanti variabili.

In effetti, la definizione dei programmi dei percorsi formativi di informatica di una qualsivoglia tipologia rivolti ai ciechi e agli ipovedenti, volendo naturalmente generalizzare, è influenzata da interferenze esterne non trascurabili. Vediamo schematicamente alcuni elementi utili per la progettazione di un corso.

1. Scopo della proposta formativa: formazione di base; formazione avanzata; formazione mirata a specifici argomenti (ausili hardware o software); formazione specificatamente funzionale ad apprendimenti di altre discipline.

2. Destinatari della proposta formativa: corso individuale; corso di gruppo; allievi in età scolare, lavorativa, adulti (tempo libero).

3. Disponibilità di risorse economiche: assenza di finanziamento; finanziamento pubblico; finanziamento privati; corso finanziato dagli iscritti.

4. Disponibilità di risorse umane: qualifica/esperienza del docente; presenza del co-docente/tutor; docente vedente, ipovedente o cieco.

5. Scelta degli argomenti: argomenti programmati dagli organizzatori della proposta formativa, suggeriti dall’allievo/i, dettati dalle circostanze (durata della formazione, disponibilità del materiale necessario, prerequisiti riscontrati).

6. Scelta della tecnologia: tipologia dell’aula; caratteristiche degli allievi (ipovedenti, ciechi assoluti, gruppo misto); obiettivi formativi.

7. Durata del percorso formativo: disponibilità del personale, degli allievi, dello spazio-aula; tipologia e complessità degli argomenti in programma; budget economico disponibile; tempistica dettata dalle regole del bando pubblico.

8. Verifica dei prerequisiti d’ingresso: allievo ipovedente, cieco; possesso del codice Braille; conoscenza degli elementi di base degli argomenti del corso.

9. Selezione dei candidati: verifica dei requisiti per la partecipazione al corso.

10. Fine secondario: socializzazione; sensibilizzazione.

Se l’esperienza maturata nel campo tifloinformatico ci incoraggia ad accertare con ragionevole consapevolezza le competenze di base indispensabili per il profilo del docente di informatica, resta da colmare l’enorme lacuna concernente la definizione del minimo comune denominatore volto ad attribuire ai corsi un valore aggiunto, un marchio di qualità: non solo quanti e quali argomenti vengono proposti in rapporto ad un dato tempo, ma con quali metodologie, con quali strategie didattiche vengono affrontate le lezioni. Quindi: perché fare? quando fare? cosa fare? come fare?

Le risposte sono necessarie, ma prima dobbiamo metterci d’accordo sulle domande. Di seguito, ancora alcuni quesiti che possono far comprendere meglio la delicatezza e il grado di complessità dell’argomento oggetto di analisi.

° Qual è il profilo del tiflo-informatico?

° Chi è autorizzato a fare la scuola guida e a rilasciare la patente?

° Basta il buon senso, l’intuito, l’esperienza personale per orientarsi e, soprattutto, orientare altri nella scelta fra ciò che è utile e ciò che è spreco o superfluo?

° Quali sono le competenze di chi intendiamo riconoscere e abilitare ad impartire con autorevolezza buoni consigli ed efficaci insegnamenti? Un ingegnere? Un sistemista? Un esperto di tecnologia assistiva, di accessibilità oppure di didattica informatica, di didattica generale o speciale?

° Come insegnare la tiflo-informatica? Il professionista ci aspettiamo che sia in possesso di un’accertata cultura tiflologica, tiflo-pedagogica? È bene che conosca la didattica dell’insegnamento del Braille e avere propri i concetti di aptica [riconoscimento tattile degli oggetti, N.d.R.], per proporre in modo opportuno esplicative mappe in rilievo?

° Deve conoscere il percorso di insegnamento della tastiera, il significato dei tasti funzione dei display Braille, l’utilizzo approfondito degli screen-reader?

° Vediamo in questa figura un tiflologo specializzato in questioni tecnologiche oppure un informatico specializzato in questioni tiflologiche o più precisamente tiflo-pedagogiche?

° Quando e come introdurre il codice Braille nei percorsi di alfabetizzazione informatica?

° Proponiamo un metodo basato su un apprendimento mnemonico e meccanico che trascuri il contesto oppure concettuale e logico che tenga conto della descrizione di finestre, titoli, icone, non tralasciando di nominare elementi e simboli grafici visivi e che si avvalga del supporto di tavole in rilievo per arricchire le esercitazioni e fissare le immagini?

° La tiflo-info-didattica è altro dalla tiflologia oppure è l’altra faccia della medesima medaglia?

° Nel porre l’obiettivo didattico, ci si deve strettamente attenere alla trattazione dell’argomento oggetto dell’insegnamento (un sistema operativo, un applicativo, una funzione) oppure finalizzarlo alla comprensione di un altro insegnamento?

° È necessario, poi, indagare con successivi interrogativi l’altro versante: l’allievo. Quali i prerequisiti necessari per un approccio corretto ed efficace all’avventura tecnologica? Vi è un’età in cui incominciare? Da quali prerequisiti partire?

Giuseppe Pontiggia.

«La normalità – scrisse Giuseppe Pontiggia – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità, rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie…»

I venti stanno cambiando

Stiamo vivendo, tiflo-logicamente parlando, momenti delicati. Si ha la percezione, per altro, che i venti stiano cambiando di direzione. La didattica inclusiva richiede incontrovertibilmente anche risposte quantitative: è necessario conoscere piani, regole, tempistiche, oltreché riferimenti economici certi. Elementi meramente burocratici-amministrativi dovrebbero essere comunque in subordine e conseguenti ad aspetti concettuali e teorico-pratici, i quali devono invece essere anteposti e fungere da guida. Dobbiamo far tesoro di un’esperienza di quasi quarant’anni di integrazione scolastica che per una simpatica coincidenza corrisponde più o meno ad altrettanti di tecnologia assistiva.

Siamo chiamati oggi alla messa a punto di un metodo scientifico di validazione di efficacia e di efficienza del rapporto tra tiflo-informatica e didattica inclusiva: ecco l’incognita della nostra proporzione! Qualità dello strumento-mezzo, qualità nella veicolazione dei contenuti, qualità della didattica specifica, qualità nella trasmissione del messaggio. Chi si prende cura di tutto questo? Questa responsabilità non può essere ricompresa nei singoli operatori; non è più tempo degli assoli! Non esiste “Superman”! Occorre operare in team! Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di affermare che le competenze necessarie per fare didattica inclusiva con la tiflo-informatica trovano il loro alveo naturale nelle maglie di una rete precostituita sviluppatasi attorno a quegli anelli portanti che hanno tracciato e scritto la storia tiflo-pedagogica nel nostro Paese. Soltanto se proteggeremo, difenderemo, sosterremo, promuoveremo le nostre strutture che operano in tal senso, a partire dagli Istituti per Ciechi, potremo trovare o “costruire” le risposte necessarie per garantire un servizio tiflo-pedagogico che non faccia rimpiangere il passato.

Oggi, occorre una convergenza multidisciplinare. Attività di ricerca e di aggiornamento, seminari, veri e propri corsi mirati, valutazioni di dispositivi e di software, attività laboratoriali extrascolastiche. E tutte queste belle cose devono avere fonte, devono muovere da un know-how conquistato e tramandato da chi ci ha preceduto. Affermare il principio della “qualità totale”, concetto oggi tanto caro al moderno mercato imprenditoriale, è il nostro primo dovere, il primo obiettivo; ciò significa infatti erogare un servizio utile per rispondere alle reali necessità dei nostri ragazzi e delle loro famiglie.

Scontro sensoriale o multi-sensorialità?

In quale modo la tecnologia continuerà ad essere al servizio dell’uomo? Quali saranno i parametri qualitativi di domani? Quanto e in che modo svolgerà un ruolo a compensazione delle disabilità?

La progettazione di una tecnologia facile, “amichevole” e sempre più autonoma è fuor di dubbio indicatore e cartina di tornasole dell’evoluzione delle dinamiche relazionali uomo-macchina. Vero è che più il rapporto uomo-device [device = dispositivo, N.d.R.] sarà basato prevalentemente su comandi gestuali impartiti a distanza e il solo pensiero sarà scintilla e causa di un evento esterno indipendente, tanto più il senso della vista manterrà la supremazia sugli altri sensi. Avrà dunque termine lo scontro sensoriale in atto oppure la multi-sensorialità, intesa come larga banda attraverso cui interagire con le “cose”, continuerà ad essere oggetto di attenzione da parte dei ricercatori?

Ad ogni modo, più lo strumento tecnologico si affrancherà dall’uomo, tanto più questi gli cederà potere di scelta e di azione. L’uomo avrà “schifo” persino di toccare ciò che è frutto della sua creatività, ciò di cui si serve. L’uomo prenderà le distanze da ciò che è il risultato della sua ricerca e da ciò che inventa, da ciò di cui non potrà più comunque fare a meno. In quest’ultimo scenario, allora, l’uomo non guarderà al visivo come strumento per “manipolare” il mondo, ma sarà schiacciato, soverchiato, dominato, sarà – in una sorta di ribaltamento dei ruoli – “pilotato dalla tecnologia”, dalla robotica, dall’intelligenza artificiale, da ciò che egli stesso ha realizzato per sua stessa mano e intelligenza. La disabilità e la tiflo-informatica troveranno ancora posto lungo l’asse tecnologia-didattica digitale? Potranno le tecnologie avanzate del futuro “normalizzare” ogni forma di disabilità? Ma cos’è la normalità? Ed esiste una normalità? Avrà ancora senso ragionare di didattica inclusiva?

Abbiamo imparato a dirci che nessuno può essere considerato normale. Forse, neghiamo la normalità perché non accettiamo la nostra diversità: «La normalità – sottoposta ad analisi aggressive non meno che la diversità – rivela incrinature, crepe, deficienze, ritardi funzionali, intermittenze, anomalie. Tutto diventa eccezione e il bisogno della norma, allontanato dalla porta, si riaffaccia ancora più temibile alla finestra. Si finisce così per rafforzarlo, come un virus reso invulnerabile dalle cure per sopprimerlo. Non è negando le differenze che lo si combatte, ma modificando l’immagine della norma» (Giuseppe Pontiggia, Nati due volte).

Nassim Nicholas Taleb

«L’antifragilità – ha scritto il filosofo, saggista e matematico Nassim Nicholas Taleb – va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a se stesso; l’antifragile migliora»

Se la norma si configura come pluralità di differenze, non possiamo permettere, tuttavia, che alcuno si dimentichi dei bisogni specifici delle persone che vivono in uno stato di permanente difficoltà, per condizioni fisiche, mentali, ambientali o sociali, che comportino svantaggi ed emarginazioni. È importante altresì riconoscere la necessità di non permettere al deficit di oscurare il valore della persona nella sua essenziale umanità, sottolineando le abilità, valorizzando le potenzialità di ogni individuo, richiamando il concetto tanto avverso quanto interessante di “diversabilità”.

La Pedagogia Speciale si sta occupando, alla luce dei cambiamenti sociali e culturali in atto, anche dello studio, della ricerca e della presa in carico e cura delle situazioni di vulnerabilità causate non solo da fattori biologici, ma anche personali, sociali, culturali e ambientali. Ricerca inoltre i modi possibili per favorire una riorganizzazione positiva della vita, con l’osservazione e lo studio degli atteggiamenti di resilienza ovvero la resistenza psicologica alle avversità, che rappresenta una nuova prospettiva verso la disabilità e l’handicap. Se si vuole lavorare nell’interesse della persona con disabilità, non si può partire dalle competenze burocratiche, bisogna partire da lui, crescere con lui, seguirlo in tutto il continuum della sua esistenza, individuando per lui e con lui il suo “progetto di vita”.

È peraltro da scongiurare la «tragedia della modernità: come nel caso dei genitori nevrotici e iperprotettivi, spesso chi cerca di aiutarci finisce per farci più male. Se quasi tutto ciò che è calato dall’alto (top-down) rende fragili, impedendo l’antifragilità e la crescita, d’altro canto con la giusta quantità di stress e disordine tutto ciò che viene dal basso (bottom-up) fiorisce. Lo stesso processo di scoperta è condizionato dall’antifragile arte di sperimentare e da un’aggressiva assunzione di rischi, piuttosto che dall’aver ricevuto un’istruzione regolare (e lo stesso vale per l’innovazione o il progresso tecnologico) (Nassim Nicholas Taleb, Antifragile. Prosperare nel disordine).

Fragilità e antifragilità.

Spesso attribuiamo la causa della nostra fragilità totale unicamente a quelle tre lettere del prefisso “dis”, “calato dall’alto”, che rappresenta la negazione o la privazione di una qualsivoglia condizione di abilità. L’oppressione di quella parolina ci pervade e ci tiene compagnia dalla mattina alla sera, dalla sera alla mattina, ci soverchia tutti i giorni della nostra vita: cresce, vive e se ne va con noi. Come combattere la fragilità? Come rifuggirla? Esiste il suo opposto funzionale? Esiste davvero un antidoto efficace?

Cerchiamo riparo in situazioni ed eventi esterni a noi, indipendenti da noi. Le nostre generazioni, ad esempio, trovano per lo più momenti di sollievo e conforto salvifici nel rincorrere gli ultimi ritrovati tecnologici: improvvisate sperimentazioni, test senza un dichiarato scopo, promesse vaghe, si rivelano spesso specchi per allodole. L’inconscio bisogno di riprendere un po’ di fiato trascorrendo brevi istanti di evasione si traduce in rapida delusione e inevitabile rammarico; siamo chiamati a conoscere aggeggi di dubbia utilità, ausili spesso solo tali sulla carta, ultime versioni di software talvolta peggiorative; ogni volta siamo attratti con lo stesso immutato ardore e la medesima rinnovata speranza, disposti a donare la nostra unicità di persone con tutte le loro inestimabili differenze, in nome e in cambio di un’uguaglianza fatta di ipotetiche pari, fugaci opportunità; ogni volta – quasi ogni volta – riprecipitiamo giù, quando qualcosa o qualcuno mette in luce i nostri limiti, fisici o sensoriali, pronti però a ripartire, questa volta, dalla nostra segreta fortezza fatta di fatiche mai dichiarate, di sconfitte mal digerite, di intime frustrazioni alquanto corrosive.

Affrontare con avvedutezza gli ostacoli della vita, reagire prontamente agli imprevisti, abituarsi alla disabitudine, sono alcune fondamentali leve dalle quali può lievitare la crescita personale di un qualsiasi individuo, disabile o no.

Di certo, i dispositivi tecnologici sono ormai considerati vitali per tutti, dallo smartphone al personal computer; è fuor di dubbio che non riusciamo ad immaginare un mondo privo di tecnologia! Il confine, infatti, tra mondo reale e virtuale è alquanto aleatorio. Muoversi con la consapevolezza di poter sbagliare, di mettere il piede in fallo, di cadere senza appiglio, sono rischi che ormai fanno parte della nostra stessa esistenza, con i quali dobbiamo imparare a convivere fino a farceli amici.

Ecco ancora una qualità, un’altra abilità da migliorare! Ci viene in aiuto ancora una volta Nassim Nicholas Taleb con il suo illuminante lavoro: «L’antifragilità va al di là della resilienza e della robustezza. Ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a se stesso; l’antifragile migliora. Questa qualità è alla base di tutto ciò che muta nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico, la sopravvivenza delle aziende, le buone ricette (per esempio il brodo di pollo o la bistecca alla tartara con un goccio di cognac), lo sviluppo di città, civiltà, sistemi giuridici, foreste equatoriali, la resistenza dei batteri… persino la vita della nostra specie su questo pianeta. Ed è l’antifragilità a determinare il confine tra ciò che vive ed è organico (o complesso), come per esempio il corpo umano, e ciò che è inerte, per esempio un oggetto come la graffettatrice che abbiamo sulla scrivania» (Taleb, Antifragile cit.).

Similmente antifragile è colui che ha imparato a lottare strenuamente senza risparmio per conquistare oggi un pezzetto di integrazione sociale, per poi all’indomani farselo sciogliere tra le mani come neve al sole; riafferrarlo ancora e poi di nuovo vedere svanire i propri sforzi il giorno successivo…

Combattere i pregiudizi più intimi, le convinzioni più radicate, le false credenze più diffuse, presuppone forza di volontà, perseveranza, determinazione, decisamente altro e di più del saper resistere. Ad esempio, l’applauso di quando attraversi l’incrocio “alla grande” schivando le auto e azzeccando il passaggio tra le aiuole dello spartitraffico oppure l’ovazione corale di quando imbocchi la scala della metropolitana senza fallire il primo scalino, pèrdono di spontaneità e di gratitudine al primo “oh” urlato, allorché sbatti contro un palo, lì, per caso, oppure ti adagi su una bicicletta mal posta sul marciapiedi; il consenso di stupore che si coglie nel salire in scioltezza i gradini del tram si trasforma in solidarietà compassionevole, quando vieni assalito dai numerosi e rumorosi benefattori sempre pronti a cederti il posto a sedere; la meraviglia smisurata di come accarezzi lo schermo di uno smartphone si alterna allo scetticismo nel momento in cui il software di navigazione ci fa sbagliare percorso o numero civico, quasi che in fondo la colpa sia da ricondurre all’utilizzatore.

L’integrazione sociale serpeggia tra il caso, la casualità, il disordine, la volatilità e i fattori di stress: l’integrazione sociale non è lineare ed è anche per questa ragione antifragile, si evolve alla stregua dei sistemi più complessi.

L’inclusione e i “cigni neri”

Il ragionamento calza alla perfezione affrontando le tematiche segnatamente correlate all’inclusione scolastica. Vi è la tendenza a generare reazioni a catena che escono dal controllo e riducono, o perfino annullano, le certezze di un’oculata pianificazione, provocando quindi eventi fuori misura.

Se da un lato il mondo odierno sta senz’altro accrescendo le proprie conoscenze tecnologiche, dall’altro, paradossalmente, rende le cose molto più imprevedibili. Ora, per ragioni connesse all’aumento di ciò che è artificiale, all’allontanamento dai modelli ancestrali e naturali e alla perdita di robustezza causata dalle complicazioni che si incontrano creando qualsiasi cosa, il ruolo degli eventi rari (i “cigni neri” di Taleb) sta assumendo sempre più importanza. Inoltre, siamo vittime di una nuova malattia, la neomania, la quale ci porta a costruire sistemi vulnerabili alla stregua del “cigno nero” nel nome del “progresso”.

Il percorso dell’inclusione scolastica oscilla in continuazione e si appoggia ora sul pilastro tecnologico e dell’accessibilità al digitale e al materiale di studio, un po’ meno sul pilastro dell’orientamento e della mobilità, talvolta sul pilastro della relazione con i compagni e con gli insegnanti, molto raramente sul pilastro dell’indipendenza e della libertà di pensiero.

Ricercare un equilibrio che favorisca una crescita armonica dello studente significa contemplare l’imprevisto, accettare il rischio, mettere in luce punti di potenziale vulnerabilità. Per questa prospettiva occorrerebbe un’inequivocabile convergenza interdisciplinare fra le componenti che concorrono al processo inclusivo, la qual cosa non è scontata per molteplici ragioni: diverse sensibilità individuali; differenti livelli di conoscenza delle implicazioni correlate alla disabilità visiva; visioni diverse dei processi educativi; problematiche inerenti alle difficoltà di tipo organizzativo, concernenti gli incontri di confronto e di pianificazione.

Proteggere i nostri ragazzi dalle insidie del sistema equivale, d’altra parte, a conservare lo status quo e ad optare per la via più facile, quella cioè della rassegnazione al loro futuro di permanente fragilità. Come siamo fieri ed orgogliosi del nostro operato di tutor, quando il nostro studente (modello o “cavia”) dà prova di saper utilizzare la tastiera di un computer a dieci dita, di saper aprire con presunta rapidità una cartella o un documento digitali, di saper far scivolare con destrezza due dita sullo schermo piatto di un dispositivo interattivo; come siamo contenti… Urliamo per questo al successo inclusivo! Così, in qualche modo, siamo, ahimè, colti di sorpresa, ci deresponsabilizziamo e non sappiamo meravigliarci neppure più, dinanzi alla scarsa autonomia che egli mostra nel riporre in modo maldestro la “cavetteria” e tutta la tecnologia di cui dispone nello zainetto oppure di fronte allo smarrimento che vive nel tentativo di raggiungere la porta di uscita dell’aula. Come sappiamo profondere elogi in abbondanza nel vederlo navigare tra intestazioni e tabelle con buona disinvoltura, presentandolo come un piccolo fenomeno, così non siamo in grado di dargli suggerimenti appropriati e di fornirgli strategie efficaci e metodologie adeguate al momento di rielaborare e di concettualizzare i contenuti della pagina.

Le dinamiche che sottintendono a questo composito sistema sono parallele, interdipendenti, talora si compenetrano; una lettura che non sia superficiale può avvenire compiutamente da un acuto osservatore esterno in grado di coglierne gli effetti generali o, comunque, richiede uno scambio consapevole condotto costantemente dal gruppo degli operatori. L’insegnamento dell’informatica e la possibilità di accesso a strumenti tecnologici, da soli, non determineranno la bontà di un percorso di inclusione, così come la relazione con uno, due compagni non indurrà a persuadere che il nostro allievo si senta a proprio agio nelle attività di gruppo. L’inclusione scolastica è la somma degli istanti che costituiscono una parte della nostra vita! Avremo creato condizioni di vera inclusione solo quando nei nostri ragazzi i momenti di autentica serenità prevarranno su quelli difficili. La fonte dell’umana gioia consiste nel sentirsi liberi da ogni paura, ansia, stress, frustrazione e non fa preoccupare di nulla; la fonte dell’umana gioia è quando ciò che fai ti tranquillizza e ti insegna qualcosa, continuamente; quando ti senti bene ogni volta che commetti un errore, perché sai che stai imparando qualcosa. Le sensazioni che sapremo far loro provare influiranno sulla loro salute, sulla loro autostima, sulla qualità delle relazioni che sapranno tessere con gli altri e sulla loro vita. Che siano quindi meravigliose!

Disciplina, sforzo, determinazione: tre qualità le cui ricompense saranno sorprendenti!

Una didattica, per poter essere definita “per tutti”, deve avere tra gli obiettivi primari quello di stimolare gli studenti a darci dentro per ottenere qualsiasi cosa desiderino; ad essere orgogliosi di se stessi e darlo a vedere; ad avere il controllo di ogni cosa che fanno e che devono fare; ad amare la vita e adorare di stare in compagnia. I momenti difficili sono, appunto, solo momenti che ti fanno diventare persona migliore. In fondo in fondo, occorre sapere che quegli istanti servono per imparare delle preziose lezioni. I nostri ragazzi si sentiranno realmente felici, rilassati, fiduciosi, centrati e lucidi riguardo ad ogni cosa, quando sapranno godere della loro libertà. Ci sarà integrazione totale quando saranno tutti individualmente liberi, non prigionieri cioè dei propri limiti fisici, ma soprattutto dei limiti dei propri pensieri, della propria mente. Solo allora potremo sostenere che avranno raggiunto la piena integrazione sociale e inclusione scolastica; solo allora potremo apprezzare gli effetti di una didattica inclusiva.

L’insegnamento dell’utilizzo ancorché basico del personal computer e della tecnologia assistiva avrà tanto più raggiunto il suo scopo inclusivo quanto più saprà richiamare, ricomprendere e contemplare i valori appena menzionati. Un insegnamento privo della competenza info-tiflo-pedagogica si muoverà nella direzione contraria e correrà il rischio di erigere nuove e vecchie barriere attorno al nostro allievo, gettandolo nell’isolamento più opprimente, impregnato di rassegnazione, vana fatica, frustrazione. Una preparazione professionale approssimativa del tiflo-informatico e un’improvvisazione metodologica possono dare origine nel discente ad irreparabili sensazioni di sfiducia nelle proprie capacità, generando tra l’altro un rifiuto per la materia che si protrarrà nel medio-lungo periodo.

Un sistema di inclusione scolastica che intenda ambire ad elevati parametri qualitativi, allontanandosi dallo spettro della regressione storico-politica di nuove forme di emarginazioni coatte, dovrà potersi sviluppare all’insegna della trasparenza e di un costante confronto tra figure esperte, in presenza di regole certe. Diversamente, si accompagneranno le famiglie e i loro ragazzi verso una trappola che rilascerà i suoi segni negativi più indelebili.

«Le cose che imparate a scuola non sono che l’inizio. Il vero laboratorio comincia quando ve ne andate» (Richard Bandler): intanto, non ci rimane che riversare la speranza e la fiducia nei nostri ragazzi che, da soli, sono costretti a porre rimedio alle incapacità e alla vanità di noi adulti.

Alcuni versi di una poesia scritta da un poeta inglese molto malato sul letto d’ospedale racchiudono magistralmente un insegnamento che dovrebbe essere il riferimento di ogni materia; si dice che Nelson Mandela, nei suoi ventisette anni di carcere la recitasse, la interpretasse per darsi forza e coraggio: «Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanti castighi ci possano essere nella vita, ma che voi siate, ragazzi, padroni del vostro destino e capitani della vostra Anima».

Buon cammino, ragazzi, buon cammino!

Franco Lisi,

Direttore scientifico dell’Istituto dei Ciechi di Milano.

venerdì 28 dicembre 2018

Il governo taglia 20 milioni agli aiuti per soggetti fragili

La Repubblica del 23-12-2018

MILANO. Di che cosa stiamo parlando. Lo stop delle agevolazioni IRES per le organizzazioni no profit inserito nel maxi-emendamento alla legge di Bilancio costerà al Terzo Settore in Lombardia 20 milioni di euro. Ad essere penalizzate saranno centinaia di fondazioni e associazioni storiche che da tempo offrono servizi sociosanitari sostituendosi allo Stato In Lombardia, lo stop delle agevolazioni Ires per le organizzazioni no profit costerà 20 milioni di euro. Il raddoppio della aliquota che passerà dal 12 al 24 per cento previsto da maxiemendamento del governo alla legge di Bilancio rischia di mettere in ginocchio il Terzo settore. A lanciare l'allarme è Valeria Negrini, portavoce del Forum Lombardia e presidente di Feder-solidarietà, che definisce « mortificante » la decisione della maggioranza gialloverde di mettere sullo stesso piano la tassazione delle associazioni di volontariato con quella degli enti commerciali. Spiega che l'azzeramento delle agevolazioni colpirà una realtà di centinaia di fondazioni e associazioni storiche che da tempo offrono servizi sociosanitari sostituendosi allo Stato: «La Lombardia - dichiara - è la regione che ha il maggior numero di presenze di questo tipo di enti ed è ragionevole pensare che questo nuovo balzello costerà circa il 20 per cento dei 100 milioni di maggiori tasse a livello nazionale». Una doccia gelata per le associazioni no profit che arriva all'improvviso e a fine anno. Che si tradurrà, inevitabilmente in un taglio di servizi, ma anche di fondi per la ricerca. «Una riduzione di risorse che colpirà proprio quei cittadini più fragili, che magari hanno goduto finora maggiormente dei benefici offerti dal mondo no profit - aggiunge la portavoce lombarda del Terzo Settore -. Una misura presa con troppa facilità e che colpirà anche quelle strutture che proprio in Lombardia avevano fatto investimenti per proporre servizi nuovi sull'autismo » . Mentre «nei sei mesi che sono trascorsi il governo avrebbe potuto studiare altri misure».

Preoccupato per i riflessi del taglio delle agevolazioni anche Rodolfo Masto, presidente dell'Istituto dei ciechi, che commenta sconfortato: «Da anni, aspettavamo una modernizzazione della fiscalità relativa alla beneficenza. Come negli Stati Uniti, dove le donazioni sono detraibili dalle tasse. Nessuno si sarebbe aspettato, invece, che nella legge di Bilancio i redditi da patrimonio delle onlus venissero gravati da un ulteriore balzello» Si unisce al coro di proteste padre Virginio Bepper, presidente dell'Aris, che rappresenta gli istituti socio- sanitari religiosi. « Abbiamo le tariffe ferme al '97, il governo Monti poi ci ha bloccato il fatturato. Abbiamo avuto già abbastanza penalizzazioni. Stiamo trattando il rinnovo del contratto dei dipendenti, ma non abbiamo risorse. Lavorare così diventa impossibile».

Alberto Senigallia di progetto Arca precisa che la sua organizzazione non subirà conseguenze visto che i loro assistiti non pagano rette come nelle case di riposo. Non per questo, però, si dice meno preoccupato dell'atteggiamento del governo nei confronti del Terzo settore. Racconta che «questa focalizzazione del governo sul no profit visto come chi specula è un problema. Il taglio delle agevolazioni creerà problemi ad organizzazioni che, invece, lo Stato dovrebbe sostenere perché aiutano a rivolgere problemi sociali. È un accanimento che speriamo finisca».
Cresce la protesta anche nel mondo politico. L'europarlamentare del Pd, Simona Bonafè punta il dito sul governo e dice: «Dovevano abolire la povertà e tassano chi aiuta il prossimo, colpendo il volontariato e il no profit, grazie all'abolizione delle agevolazioni IRES inserita nella manovra gialloverde. Ad essere colpite saranno proprio quelle realtà che aiutano i più bisognosi e non solo: dai servizi sociosanitari, all'integrazione dei giovani nel mondo dello sport ai servizi di protezione civile». Sulla stessa linea il centrista Antonio De Poli, che rilancia: « Così il governo Conte tradisce il volontariato. Si colpisce un mondo che grazie al principio di sussidierietà si occupa di assistenza».

di Andrea Montanari

Ires e no profit, Fiaschi (Terzo settore): "... Così si mette in discussione anche la Costituzione"

Il Fatto Quotidiano del 27-12-2018

La portavoce del Forum Terzo settore contro il taglio delle agevolazioni: "Non è solo un irragionevole inasprimento fiscale che raddoppierebbe i costi, ma tocca anche la visione del bene comune".

L’Ires raddoppia e passa dal 12 al 24 per cento per il settore no profit. Parliamo di enti non commerciali come gli istituti di assistenza sociale, enti ospedalieri o associazioni senza scopo di lucro. Tutto scritto nel maxiemendamento passato al Senato e che nelle prossime ore avrà il via libera definitivo dopo il passaggio alla Camera. Ma se il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato che la norma va rivista e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha specificato che sarà ricalibrata in un altro provvedimento a gennaio, il no profit italiano è sul piede di guerra perché, come spiega la portavoce del Forum Terzo settore al fattoquotidiano.it Claudia Fiaschi, questa norma “equipara enti, da decenni considerati meritevoli di agevolazioni fiscali per le loro attività per le fasce più disagiate della popolazione, alle imprese che fanno lucro“.

Che cosa significa confermare lo stop delle agevolazioni Ires?
Questo provvedimento non porta solo a un irragionevole inasprimento fiscale, ma tocca anche la nostra visione del bene comune. Non c’è più alcuna differenza tra perseguire un interesse egoistico – spesso additato come fonte delle tante diseguaglianze del nostro Paese, e non solo – al posto dell’interesse generale. In definitiva viene messo in discussione l’articolo 2 della Costituzione e la recente normativa sul Terzo settore.
A quanto corrisponde il gettito fiscale con l’entrata in vigore della norma?
Stiamo parlando di 118 milioni per il 2019 e di 158 milioni dal 2020 in avanti, come scritto nella relazione tecnica della manovra. Il taglio delle agevolazioni, peraltro, si inserisce in un momento delicato di transizione tra la vecchia e la nuova normativa. Il decreto legislativo 117 del 2017 con il Codice del Terzo Settore aveva già previsto la esclusione degli enti del terzo settore dalla agevolazione Ires ma solo a partire dall’entrata in vigore del nuovo quadro fiscale (ora in attesa di autorizzazione dal parte dell’Unione Europea) che prevede diverse modalità agevolative, così da non comportare squilibri nella vita degli enti.

Chi viene penalizzato?
Tutte le categorie elencate nel testo, senza distinzione. Enti e istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti ospedalieri, enti di assistenza e beneficenza, ma anche istituti di istruzione e istituti di studio e sperimentazione di interesse generale che non hanno fine di lucro, corpi scientifici, accademie, fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, di esperienze e ricerche aventi scopi esclusivamente culturali. E pure istituti autonomi per le case popolari.

giovedì 27 dicembre 2018

I giovani e la Strategia Europea sulla Disabilità 2020-2030, di Francesca Sbianchi*

Superando.it del 22-12-2018

«Il mio auspicio in riferimento alla prossima Strategia Europea sulla Disabilità per il 2020-2030 è che nessun giovane con disabilità, e più in generale nessuna persona, debba rinunciare a studiare o lavorare in Europa per questioni logistiche o non dipendenti dalla sua volontà»: così Francesca Sbianchi ha concluso il proprio intervento, in rappresentanza del Comitato Giovani del Forum Europeo sulla Disabilità, alla Conferenza organizzata il 3 e 4 dicembre scorsi a Bruxelles, in occasione della Giornata Europea delle Persone con Disabilità.

BRUXELLES. In occasione della Conferenza per la Giornata Europea delle Persone con Disabilità, organizzata dalla Commissione Europea a Bruxelles il 3 e 4 dicembre scorsi, in qualità di rappresentante del Comitato Giovani dell’EDF, il Forum Europeo della Disabilità, mi è stato chiesto di presentare le aspettative dei giovani con disabilità riguardo alla Strategia Europea sulla Disabilità 2020-2030.

Questa richiesta mi ha condotto a riflettere su che cosa effettivamente potrebbe cambiare la condizione di vita di tanti ragazze e ragazzi di tutta Europa. La lettura della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità è sempre il mio punto di riferimento e anche questa volta è stata fonte di ispirazione.

C’è una parola nella Convenzione che viene citata una sola volta, dunque questo termine potrebbe apparire secondario rispetto ad altri. Questa parola è empowerment e viene giustamente citata all’articolo 6, Donne con disabilità. Ma che cosa significa empowerment?

È un sostantivo molto denso di significati. Una semplice ricerca su internet ci dice che si tratta della conquista della consapevolezza di sé e del controllo sulle proprie scelte, decisioni e azioni, sia nell’àmbito delle relazioni personali, sia in quello della vita politica e sociale.

Se si va dunque a rileggere la Convenzione tenendo presente il significato di empowerment, ci si rende conto che tutto il testo è pervaso da questo concetto. Basti pensare all’articolo 8 (Accrescimento della consapevolezza), letto congiuntamente all’articolo 24 (Educazione), per evincere il rilievo che viene dato all’autodeterminazione delle persone con disabilità, al loro valore e alla consapevolezza da parte loro dei propri diritti e delle proprie potenzialità, in un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita. È chiaro, infatti, che se si parla di «combattere gli stereotipi e di promuovere la consapevolezza delle capacità e i contributi delle persone con disabilità», del «riconoscimento delle capacità, dei meriti e delle attitudini delle persone con disabilità», nonché dello «sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità», è di empowerment che si sta parlando.

Sappiamo tutti che ciò che viene sancito dalla Convenzione ONU, purtroppo, non sempre viene attuato o perlomeno non completamente: c’è uno scollamento tra la raffinatezza dei temi espressi e quello che poi effettivamente le persone vivono.

Certamente, se non si conoscono o non si è consapevoli dei propri diritti, è difficile poterli esercitare e farli rispettare. La Commissione Europea mette a disposizione programmi e azioni a sostegno delle politiche sociali, con riferimento anche all’inclusione delle persone con disabilità. Questi programmi e azioni sono strumenti fondamentali per la piena partecipazione e lo sviluppo personale e collettivo. Se però le informazioni su di essi non giungono adeguatamente ai destinatari, sarà per loro impossibile trarne beneficio.

Inoltre, non bisogna mai dimenticare che le persone con disabilità hanno esigenze specifiche, di cui bisogna tenere conto, che si aggiungono a quelle che normalmente hanno le persone senza disabilità.

Sono fermamente convinta dell’impatto positivo che i programmi della Commissione Europea, come Erasmus+, European Solidarity Corps, DiscoverEU, possono avere sulla vita dei giovani, non solo perché favoriscono la mobilità internazionale, ma perché permettono anche di acquisire nuove competenze, ad esempio quella di sapersi relazionare in culture e contesti diversi, che portano a una crescita e a un arricchimento utili per proporsi poi nel mondo del lavoro in maniera più efficace.

Purtroppo, di tutti i giovani europei che hanno preso parte a questi programmi solo l’1% sono giovani con disabilità. Eppure, Erasmus+ è stato scritto pensandolo come un programma che avrebbe dovuto includere i giovani con disabilità, in conformità con la Convenzione ONU.

Grazie al Programma Erasmus, una ragazza non vedente avrebbe dovuto trascorrere nove mesi in un paese del Nord Europa. Preferisco non specificare il nome della ragazza né la località precisa, perché si tratta solo di un esempio, un caso che si sarebbe potuto verificare in qualsiasi altro Paese.

A questa ragazza è stato fornito un alloggio accessibile, ma in una zona della città lontana dall’università. Con il suo cane guida, ogni giorno doveva prendere i mezzi pubblici e percorrere un tratto di strada in salita; in inverno la neve complicava ulteriormente la situazione…

È facile immaginare la difficoltà che questa giovane e il suo cane guida affrontavano quotidianamente per andare e tornare in autonomia dall’Università. Esposte le difficoltà all’ufficio competente dell’Università ospitante, le è stato risposto che le era già stato fornito un alloggio accessibile e che non erano tenuti a fare altro. Alla fine, la protagonista della storia ha dovuto rinunciare, perché, nonostante un alloggio le fosse stato fornito, questo non era adeguato ai suoi bisogni specifici e quell’esperienza era diventata impossibile da sostenere.

Ho voluto parlare di questa ragazza, che aveva scelto di credere in se stessa decidendo di studiare e vivere per molti mesi all’estero, ma che ha dovuto confrontarsi con i complessi e rigidi procedimenti amministrativi del programma Erasmus+, per far comprendere che anche difficoltà che possono sembrare banali divengono insormontabili, se non si giunge a un accomodamento ragionevole.

I programmi per la mobilità internazionale che includano pienamente i giovani con disabilità non devono essere delineati in maniera rigida, ma flessibile, proprio per far fronte ai bisogni specifici: dovrebbero essere disegnati per tutelare le differenze e sostenere i ragazzi in quello che è un vero e proprio percorso di crescita. Ad esempio, sarebbe utile che ai ragazzi con disabilità – che devono sostenere maggiori spese rispetto ai loro coetanei – venisse fornito un contributo economico in anticipo, prima della partenza.

Queste sono alcune delle osservazioni e raccomandazioni scaturite anche dal progetto, in corso di svolgimento, denominato Inclusive Mobility Alliance, coordinato dall’ESN (European Students Network), che vede, tra i partner, anche il Forum Europeo sulla Disabilità e l’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), in collaborazione con l’Unione Europea dei Ciechi (EBU).

Si tratta di un progetto volto a creare una solida sinergia a livello europeo, per incrementare il numero di studenti con disabilità che compiono una parte dei loro studi universitari all’estero nel quadro del programma Erasmus+. Si prevede, tra l’altro, la produzione di un toolkit [guide, tutorial, esercizi, risorse informatiche, N.d.R.] sulla mobilità inclusiva e di alcune raccomandazioni affinché il programma Erasmus+ diventi sempre più inclusivo.

Proprio come all’interno dell’Inclusive Mobility Alliance si è creata una sinergia tra organizzazioni rappresentative delle persone con disabilità, servizi, network e fondazioni che operano nell’àmbito delle politiche giovanili e in quelo dell’istruzione universitaria, allo stesso modo si dovrebbe creare una stretta collaborazione tra la Commissione Europea e le Organizzazioni delle Persone con Disabilità, che dovrebbero essere sempre consultate nella creazione e gestione di programmi che tengano conto dei bisogni specifici, e che questi programmi siano diffusi in maniera completa, facilitata, adeguata, efficace e abbiano al centro il reale empowerment dei giovani con disabilità, permettendo così che possano utilizzare gli strumenti messi a loro disposizione dall’Unione Europea, divenendo attori della propria vita in grado di decidere consapevolmente.

Questo non significa che si debba trascurare l’accessibilità, che rimane uno dei fattori essenziali per una piena inclusione, ma l’empowerment dev’essere il faro al centro delle politiche per le persone con disabilità.

In linea con l’articolo 27 della Convenzione ONU (Lavoro e occupazione), una delle aree di intervento descritte nella Strategia Europea sulla Disabilità 2010-2020 era incentrata sul lavoro e l’occupazione.

Il lavoro rappresenta una componente essenziale dell’essere umano: un diritto e allo stesso tempo un dovere, il cui valore si estrinseca non solo nell’àmbito meramente economico, ma anche in ciò che concerne gli aspetti sociali e psicologici, con importanti ripercussioni sulla qualità di vita della persona.

Alle persone con disabilità, in particolare, il lavoro, oltre a fornire la possibilità dell’indipendenza economica, dà modo di realizzarsi come esseri umani e come cittadini, uguali agli altri nei diritti e nei doveri.

Per le persone con disabilità, un inserimento lavorativo efficace assume un grande valore, poiché accresce il senso di autoefficacia, autostima e autorealizzazione, permette di dedicarsi ad attività produttive e utili, potenziando le proprie competenze e l’autonomia, favorisce l’arricchimento personale e nell’àmbito delle relazioni ed è inoltre un elemento fondamentale per il raggiungimento dell’inclusione sociale.

Va a beneficio di tutti se si realizza un sistema sociale efficiente in cui tutti possano esercitare il diritto di guadagnarsi un proprio reddito con un adeguato inserimento nel sistema economico e produttivo, seguendo il principio della “persona giusta nel posto giusto”.

I dati in riferimento all’occupazione delle persone con disabilità non sono, però, molto incoraggianti: è opportuno, quindi, che nella futura Strategia le Istituzioni Europee pongano ancora più impegno per delineare politiche a sostegno dell’inserimento delle persone con disabilità nel mercato del lavoro e rispondere con maggiore efficacia al fondamentale diritto all’autodeterminazione che hanno milioni di persone con disabilità in tutt’Europa.

La libertà di movimento all’interno dell’Unione Europea – uno dei fattori che favoriscono il collocamento lavorativo . è diventata un concetto normale per molti cittadini europei. Ma non si può affermare lo stesso per i giovani con disabilità, a cui ancora troppo spesso viene negato questo diritto, se scelgono di studiare o lavorare per un periodo più lungo in un altro Paese.

La portabilità dei servizi di previdenza sociale collegati alla disabilità non è ancora regolamentata e questo aspetto scoraggia notevolmente i giovani con disabilità, che sono costretti a scegliere sempre meno di studiare o lavorare altrove, a causa della mancanza dei servizi previdenziali; questi giovani, infatti, non sono messi nelle condizioni di iniziare la loro vita nel nuovo Paese su una base di parità con i propri coetanei.

La libertà di movimento, dunque, va assolutamente potenziata. Uno strumento che va in questa direzione è l’European Disability Card, che dovrà passare da semplice progetto, o “esperimento” al quale partecipano solo pochi Stati Membri, a realtà concreta, esigibile. Per sentirsi cittadini europei a tutti gli effetti, i giovani con disabilità devono poter essere accolti e ricevere gli stessi servizi ovunque nell’Unione Europea.

Essendo una persona che guarda al futuro con molta speranza e non avendo paura che i sogni non si avverino, il mio auspicio in riferimento alla Strategia Europea sulla Disabilità per il 2020-2030 è che nessun giovane con disabilità, e più in generale nessuna persona, debba rinunciare a studiare o lavorare in Europa per questioni logistiche o non dipendenti dalla sua volontà. Qualcuno potrà pensare che sono un’illusa, ma sono soltanto una giovane che con consapevolezza sceglie di credere che l’Europa abbia le capacità di rispondere con efficacia alle importanti istanze della società civile.

Testo tratto dall’intervento tenuto dall’Autrice alla Conferenza per la Giornata Europea delle Persone con Disabilità, Bruxelles, 3-4- dicembre 2018.

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Giornata Europea delle Persone con Disabilità: la Conferenza di Bruxelles.

Organizzata dalla Commissione Europea in collaborazione con l’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, la Conferenza di Bruxelles della Giornata Europea delle Persone con Disabilità fa parte della gamma di attività dell’Unione Europea, volte a promuovere il mainstreaming dei problemi relativi alla disabilità [inserimento dei provvedimenti riguardanti la disabilità in tutti i provvedimenti generali, N.d.R.] e a fare opera di sensibilizzazione in merito alle sfide quotidiane affrontate dalle persone con disabilità.

Alla Conferenza 2018 hanno preso parte politici, esperti di alto livello e self-advocate (“autorappresentanti di tutela”), per parlare delle sfide, delle soluzioni e dei progetti in preparazione, allo scopo di migliorare le politiche a favore delle persone con disabilità. In particolare si è data ai partecipanti l’opportunità di discutere della prossima Strategia Europea sulla Disabilità 2020-2030 e dei modi in cui potrebbe essere attuata, anche nel contesto del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale.

Poiché questo 2018 è l’Anno europeo dei Beni Culturali, alla Conferenza ci si è anche interrogati sull’accessibilità del patrimonio culturale, esaminando ciò che è stato fatto finora e in che modo l’Unione Europea intenda garantire che le persone con disabilità possano godere della ricchezza del patrimonio culturale su base di uguaglianza con gli altri cittadini.

Sempre in occasione della Conferenza, infine, si è tenuta la premiazione per l’Access City Award 2019, che ha visto Marianne Thyssen, commissaria europea per l’Occupazione, gli Affari Sociali, le Competenze e la Mobilità dei Lavoratori, conferire il prestigioso riconoscimento alla città di Breda (Paesi Bassi), per avere costantemente operato a rendere la vita più facile alle persone con disabilità.

Dal canto suo, Tibor Navracsics, commissario europeo per l’Istruzione, la Cultura, i Giovani e lo Sport, ha consegnato un premio speciale a due città che hanno reso più accessibili i siti del loro patrimonio culturale, vale a dire l’italiana Monteverde, in provincia di Avellino, e la danese Viborg (Danimarca).

(Patrizia Cegna – Segreteria FID, Forum Italiano sulla Disabilità)