Superando del 27/08/2020
In merito ai permessi lavorativi retribuiti concessi ai lavoratori e alle lavoratrici per assistere un familiare con disabilità, una recente Sentenza della Corte di Cassazione, che costituirà un utile precedente giurisprudenziale, chiarisce che si configura una situazione di uso improprio o di abuso del diritto solo nella circostanza in cui venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza alla persona con disabilità e che, in ogni caso, l’onere della prova dell’eventuale abuso rimane in capo al datore di lavoro che intende sanzionare il/la dipendente.
Com'è noto, i lavoratori e le lavoratrici che prestano assistenza ad un familiare con handicap in situazione di gravità possono usufruire di tre giorni di permesso retribuito al mese, come previsto dall'articolo 33, comma 3 della Legge 104/92). Per utilizzare in modo appropriato questa agevolazione è però necessario comprendere bene quali siano le attività che possono essere ricomprese nel novero dell’assistenza.
Sotto questo profilo, una recente Sentenza della Corte di Cassazione (n. 12032 del 19 giugno scorso), destinata a costituire un utile precedente giurisprudenziale, contribuisce a chiarire molti aspetti rilevanti, ribadendo concetti già espressi in precedenti pronunciamenti: che cioè si configura una situazione di uso improprio o di abuso del diritto solo nella circostanza in cui «viene a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile», e che, in ogni caso, l’onere della prova dell’assenza di assistenza e/o dello svolgimento da parte dell’utilizzatore/trice dei permessi di attività incompatibili con la prestazione della stessa è in capo al datore di lavoro che intende sanzionare il/la dipendente.
La Sentenza della Suprema Corte si esprime sulla vicenda di una lavoratrice dipendente che aveva usufruito dei permessi lavorativi previsti dalla Legge 104/92 per assistere la propria madre con disabilità. La donna era stata successivamente licenziata dalla propria azienda perché, sulla base di una relazione dell’agenzia investigativa assoldata dall'azienda stessa, quest’ultima aveva ritenuto che la donna non avesse prestato effettiva assistenza alla madre durante il periodo di fruizione del permesso. Al licenziamento ha fatto seguito il ricorso da parte della lavoratrice, prima in Tribunale e, successivamente, presso la Corte d’Appello di Bologna. Quest’ultima ha disposto il reintegro della lavoratrice e un risarcimento pari a dodici mensilità. A questo punto l’azienda ha ritenuto di presentare un nuovo ricorso alla Corte di Cassazione (Sezione Lavoro), che tuttavia lo ha respinto, confermando quanto già stabilito dalla Corte d’Appello.
In particolare, il giudice della Corte di Cassazione ha ritenuto che la relazione dell’agenzia investigativa utilizzata dall'azienda per licenziare la lavoratrice fornisse un quadro lacunoso delle attività svolte dalla donna (a tal proposito si parla di «“pochezza” delle risultanze investigative»), giacché è emerso che questa «svolgeva una serie di attività a vantaggio dell’anziana madre non implicanti necessariamente la permanenza presso l’abitazione della stessa [grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni, N.d.R.]».
Nella sostanza la Suprema Corte ha voluto sottolineare che non tutte le attività di assistenza richiedono la compresenza della persona da assistere (pensiamo, ad esempio, al disbrigo di pratiche amministrative, al fare la spesa ecc.).
In merito poi all'assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore e della lavoratrice, la Corte ha chiarito che «pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui all'art. 3, comma 3, della l. n. 104 del 1992 un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale», come precedentemente stabilito sempre dalla Cassazione con la Sentenza n. 19580/19.
Anche questo passaggio è importante, perché ribadisce che, compatibilmente con il dovere di assistenza alla persona con disabilità, il lavoratore e la lavoratrice possono utilizzare i permessi anche per «personali esigenze di vita».
E ancora, sempre facendo riferimento alla Sentenza n. 19580/19, viene precisato che «soltanto ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell’ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente».
Infine, in merito all'onere della prova, la Corte sottolinea la perdurante permanenza in capo al datore di lavoro «dell'onus probandi in ordine alla legittimità del licenziamento intimato»: non sono dunque il lavoratore o la lavoratrice a dover dimostrare di aver utilizzato i permessi per l’assistenza in modo adeguato, ma chi contesta la sussistenza di un loro uso improprio o di un abuso del diritto. (Simona Lancioni)
Il presente testo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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