lunedì 8 marzo 2021

Helen Keller, conquistare il mondo con il palmo della mano

Il Sussidiario del 08/03/2021

Helen Keller (1880-1968), sordocieca, riuscì a conseguire due lauree e ad imparare più lingue. Fu decisivo l’incontro e il rapporto con Anne Sullivan.

“Da soli possiamo fare così poco, insieme possiamo fare così tanto”. Sembra un twitter dei nostri giorni o uno di quegli aforismi tratti dai cartigli dei Baci Perugina. Sono parole di Helen Keller (1880-1968), la prima sordocieca della storia che riuscì a conseguire due lauree e ad imparare più lingue, comprese latino e greco. Non solo: visitò 39 Paesi, lottò per i diritti delle persone menomate e ben 14 presidenti degli Stati Uniti vollero conoscerla personalmente! Il punto esclamativo è d’obbligo. Va detto che la storia dell’educazione dei sordociechi, tra Ottocento e Novecento, è pressoché tutta al femminile: protagoniste, tra le altre, la statunitense Laura Bridgman, la norvegese Ragnhild T. Kaata, l’ucraina Olga Skorokhodova, la tedesca Finni Straubinger, fino all’abruzzese Sabina Santilli, fondatrice della Lega del filo d’oro. Una storia davvero ancora poco nota.

La figura di Helen Keller spicca non senza motivo: da bambina pluriminorata divenne una celebrità internazionale, un’icona. The Story of My Life, l’autobiografia che pubblicò per la prima volta a 23 anni, avrebbe potuto intitolarsi Becoming: come Michelle Obama, anche la Keller fu una vera first lady. All’indomani della sua morte, la Santilli scrisse di lei: “Mentre il mondo parla di ‘miracoli’ nei suoi riguardi, noi abbiamo ragione di dire (non senza un risolino sotto i baffi) che è stata invece solo il primo esempio. È infatti normale che un cieco-sordo possa essere una persona normale, purché aiutato in tempo e a proposito” (S. De Carli, Sabina Santilli, la donna che portò i sordociechi fuori dal buio; vita.it, 26 maggio 2017).

A questo riguardo, trovo molto istruttivo il seguente dialogo citato da Freud: il protagonista è un suo nipotino di tre anni: “Zia, parla con me; ho paura del buio”. La zia allora gli rispose: “Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso”. “Non fa nulla – ribatté il bambino, – se qualcuno parla c’è la luce”. “Egli – commenta Freud – non aveva paura dell’oscurità bensì sentiva la mancanza di una persona cara, e riusciva a ripromettersi la tranquillità non appena avesse avuto la prova della presenza di essa” (Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905). Quel bambino poteva procurarsi con facilità la prova della presenza della persona cara, dicendo: “zia, parla con me”. Si trattava solo di attivare la zia, suscitando in lei la volontà di aiutarlo. Nei soggetti con gravi deprivazioni sensoriali le cose sono molto più complicate. Anne Sullivan, dopo avere conquistato la fiducia e la stima della piccola Helen (chi non ricorda il commovente finale del film Anna dei miracoli?) le parlava continuamente come avrebbe fatto con una persona normodotata, con l’unica differenza che le compitava ogni frase sul palmo della mano anziché pronunciarla.

A 10 anni, Helen venne a sapere che una bambina sordocieca norvegese aveva imparato a parlare: si entusiasmò moltissimo e insistette per poter fare altrettanto.

La vita, o meglio l’ambiente in cui viveva, non le risparmiò dolori e traumi, il primo dei quali risale ai suoi dodici anni. Poiché amava scrivere, Helen compose un racconto, Il Re del gelo, come regalo di compleanno per il dottor Anagnos, il direttore dell’Istituto per ciechi in cui studiava. Egli ne rimase ammirato e lo pubblicò sula rivista dell’Istituto. Di lì a poco si scoprì che un racconto molto simile, L’uccellino e i suoi amici, era stato pubblicato pochi anni prima da una certa Margaret Canby. Helen, sospettata di plagio, faticava a capire in che cosa consistesse l’accusa e non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile che i due racconti fossero quasi identici. Anagnos dapprima si convinse della sua buona fede ma poi, credendosi raggirato, “si mostrò sordo alle mie suppliche piene di amore e di innocenza. Credeva che Miss Sullivan ed io ci fossimo deliberatamente appropriate di brillanti pensieri di qualcun altro e che glieli avessimo propinati per carpire la sua ammirazione. Fui chiamata a comparire davanti a una commissione d’inchiesta composta da insegnanti e funzionari del Perkins Institute e fu chiesto a Miss Sullivan di lasciare la stanza. Percepii il dubbio in ogni domanda e il sospetto nelle loro menti (…) il sangue spingeva nel cuore pulsante e riuscivo a malapena a parlare, se non per monosillabi”. Questa volta Miss Sullivan non poteva aiutarla, poiché non conosceva affatto il racconto della Canby. Una situazione angosciante. Solo molto tempo dopo il dottor Bell, fedele amico di Helen, riuscì a svelare l’arcano scoprendo che una signora presso cui Helen aveva soggiornato aveva posseduto una copia del libro e anzi ricordava di averle letto quel racconto in un periodo in cui la Sullivan era assente. Un intreccio degno di Poirot! La Keller rimase amareggiata: “il racconto di Miss Canby mi era stato letto una volta e, molto tempo dopo averlo dimenticato, era tornato a me in maniera così naturale da non farmi sospettare che si trattasse di una mente altrui (…) Non ho più giocato con le parole per il solo piacere di farlo, sono sempre stata torturata dalla paura che ciò che scrivevo non fosse mio”.

Mark Twain, anch’egli amico di Helen e suo mentore, ne trasse un suo personalissimo giudizio, che verteva intorno all’idea di plagio inconscio: qualcosa di molto frequente che non ha nulla a che vedere con il reato del plagio stricto sensu. Con le parole di van Gogh, “Se ami i tuoi maestri, li copi”. Ad Helen rimase addosso una “paura del diavolo”: giudicata inaffidabile proprio da colui che fino a quel momento l’aveva amata e senza che lei riuscisse a rintracciare dove fosse la sua colpa, ella si sentì smarrita, in un certo senso nuda e al buio.

In tutto l’arco della sua lunga vita, ella fu una donna indomita: invitata da Annie Sullivan ad entrare in rapporto con lei, fin da quando aveva 7 anni, si accorse ben presto che tale rapporto era desiderabile e ampliabile e fece in modo che molti altri diventassero suoi partners. A ciò la Keller non si sottrasse mai, testimoniando come il parlare rappresenti più di ogni altro atto il desiderio di un legame sociale. Ed è una cosa enorme, da Premio Nobel più che da Oscar.

di Glauco Maria Genga

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