OK Salute del 19/09/2022
È una ricercatrice impegnata nell’ambito della retinopatia diabetica e delle maculopatie degenerative croniche. Inserita nel 2022 tra i 100 oculisti più autorevoli del mondo, ci descrive lo stato di salute degli occhi degli italiani.
Cervelli in entrata, non in fuga. Esistono: c’è chi sceglie di venire in Italia per iniziare un percorso universitario, e poi costruire una carriera, fare ricerca e far valere il proprio talento. Nel 1995 lo ha fatto Stela Vujosevic, che a 19 anni ha lasciato il Montenegro per studiare medicina a Padova, in una delle università più antiche e rinomate del mondo per gli ambiti scientifici. All’Italia, poi, è rimasta fedele, e anche dopo la laurea e il dottorato di ricerca, quando è volata nel Regno Unito per una fellowship clinica e di ricerca in patologie della retina presso il Moorfields Eye Hospital di Londra, è tornata per collaborare con diverse strutture ospedaliere.
Oggi, a 46 anni, è una ricercatrice impegnata principalmente nell’ambito della retinopatia diabetica e delle maculopatie degenerative croniche e proprio quest’anno è stata inserita, unica donna che lavora in Italia, nella Power List dei 100 oculisti più autorevoli del 2022, stilata da The Ophthalmologist, una pubblicazione leader del settore. Ai giovani consiglia di investire nell’istruzione pensando al proprio futuro professionale e di studiare più lingue possibili.
Dottoressa Vujosevic, come ci si guadagna una nomina all’interno di una lista così prestigiosa?
«Rispondere non è semplice, perché si tratta di un percorso lungo, che comprende più aspetti e mattoncini della vita di una persona, non solo professionali. Contano le materie scientifiche studiate, le lingue, le esperienze all’estero: io parlo quattro lingue (il montenegrino, l’italiano, l’inglese e lo spagnolo), ho fatto un anno di Erasmus a Barcellona durante il corso di medicina, un periodo di ricerca a Londra e il dottorato. Una volta laureati e formati, poi, contano lo scambio di idee e il confronto con colleghi e personalità provenienti da tutte le parti del mondo. Questo permette di arricchire il proprio pensiero e il proprio percorso professionale, oltre che di partecipare a congressi internazionali, presentare ricerche, diventare membri di società scientifiche esclusive e autorevoli. Tutto l’insieme, unito a un lavoro di ricerca costante, nel mio caso è stato riconosciuto e ha contribuito alla nomina».
In questa carriera universitaria e di ricerca qual è stata l’esperienza più importante che ha fatto e perché?
«Direi due. La prima è stata la fellowship londinese al Moorfields Eye Hospital, un centro d’eccellenza per le maculopatie e in generale per diverse malattie della retina, dove sono andata come specializzanda in oculistica da Padova. Lì è stato il mio primo contatto con una realtà internazionale, dove ho capito l’importanza del network e dello scambio, nel mio caso nell’ambito della ricerca clinica nelle patologie della retina. Dico solo che le persone che ho conosciuto in quell’ospedale, ai tempi studenti come me, oggi sono tutti direttori di cliniche, professori accademici, presidenti di società, e tutti abbiamo mantenuto un ottimo rapporto. La seconda esperienza segnante, invece, è stata il dottorato all’Università di Padova, quando mi sono resa conto che le patologie della retina erano il filone di ricerca a cui volevo dedicare la mia carriera professionale».
In un’intervista ha detto che l’oculistica può sembrare una branca minore della medicina perché riguarda un organo piccolo. E invece questo non è vero, perché l’occhio è una finestra che permette ai medici di vedere dentro il nostro organismo. Cosa intende?
«Tutti noi attraverso gli occhi osserviamo il mondo esterno. Noi oculisti, dall’altra parte, tramite lo studio degli occhi e delle sue parti siamo in grado di valutare lo stato di salute del corpo umano, in particolare del sistema cardiovascolare e del cervello, in modo non invasivo oppure minimamente invasivo. A pazienti diabetici o ipertesi che hanno avuto un ictus o un altro problema cardiovascolare si sarebbe potuto diagnosticare precocemente l’evento attraverso la valutazione del fondo oculare, che è la parte posteriore dell’occhio, durante una visita oculistica ambulatoriale».
Com’è cambiata l’oculistica negli ultimi anni?
«Nel giro di vent’anni l’oculistica si è evoluta tantissimo. Prima di tutto perché lo sviluppo tecnologico ha portato ad avere una serie di strumentazioni diagnostiche, anche non invasive, che permettono di valutare clinicamente diverse parti dell’occhio quasi a livello cellulare. Possiamo osservare sia la parte anteriore dell’occhio, la cornea, i nervi, sia il retro dell’occhio, la retina, le arterie, le vene, persino i capillari. Questi strumenti ci hanno permesso di approfondire la conoscenza di patologie prima poco conosciute e diagnosticarle in uno stadio molto precoce. Poi, dopo la diagnostica, si sono evolute anche la chirurgia e la terapia farmacologica. Oggi abbiamo a disposizione una serie di medicinali intravitreali che si iniettano direttamente all’interno dell’occhio. Questo approccio terapeutico, insieme a tecniche chirurgiche mininvasive, permette di migliorare la prognosi di diverse malattie retiniche riducendo il peggioramento visivo».
Ci può fare degli esempi?
«Pensiamo alla degenerazione maculare senile, una malattia legata all’invecchiamento che colpisce la macula, cioè la porzione più centrale della retina. Una volta c’era solo una terapia laser, piuttosto invasiva, che non riusciva a migliorare la vista del paziente, ma solo a fermare la progressiva perdita del campo visivo. Oggi, invece, con i farmaci intravitreali riusciamo – se la terapia viene fatta tempestivamente e continuativamente – ad arrestare la perdita della vista e anche a recuperarla. Lo stesso accade con la retinopatia diabetica, una complicazione del diabete che colpisce gli occhi e può portare all’edema maculare diabetico: anche in questo caso, una volta avevamo a disposizione solo il laser che arrestava la perdita visiva, oggi le nuove terapie farmacologiche, associate o meno al laser, possono anche migliorare l’acuità visiva».
Uno dei suoi ambiti di ricerca è proprio la retinopatia diabetica. Il diabete di tipo 2 è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni, si dice soprattutto a causa degli stili di vita e delle diete squilibrate occidentali; la retinopatia segue lo stesso andamento?
«Assolutamente sì. Circa il 30% dei diabetici (che in tutto in Italia sono circa 5 milioni) ha questa complicanza agli occhi, che purtroppo negli stadi iniziali rimane asintomatica. I primi segnali sono tardivi, quando il danno alla retina è già presente. Il paziente quindi va trattato subito, ma ovviamente sarebbe stato meglio diagnosticare prima il problema».
E come?
«Con la prevenzione. La retinopatia diabetica è una delle patologie che si può prevenire di più in modo mirato, perché sappiamo qual è la fascia di popolazione a rischio e perché oggi può bastare un esame del fondo oculare periodico e regolare per individuarla precocemente. Servirebbe un programma di screening a livello nazionale. In alcuni Paesi, come nel Regno Unito, esiste e da quando è stato inserito per tutti i pazienti diabetici gli inglesi sono riusciti a ridurre significativamente l’incidenza della retinopatia, che non rappresenta più la prima causa di cecità. Qui in Italia, invece, sta alla sensibilità del singolo diabetologo prescrivere esami oculistici periodici. Per fortuna ci sono sempre più colleghi che si rendono conto dell’importanza di questi controlli e stanno anche nascendo diverse associazioni di pazienti e di medici, ma un programma di screening potrebbe fare la differenza».
Relativamente alla retinopatia diabetica lei ha avviato anche lo studio Recognised, che ha l’obiettivo di indagare la correlazione tra questa patologia e il deficit cognitivo precoce. Che legame c’è tra questi due fattori?
«È uno studio importante che ha ricevuto un finanziamento dalla Comunità europea nell’ambito di Horizon 2020 e a cui partecipano nove Paesi. Lavori precedenti hanno rilevato che i pazienti con diabete di tipo 2 hanno un maggiore rischio di sviluppare deficit cognitivo, che poi può evolvere in Alzheimer. La diagnosi di demenza, però, viene svolta con test neuropsicologici piuttosto complessi, difficili per la pratica clinica quotidiana. Il nostro obiettivo è capire se, attraverso la valutazione della retina, che invece è un esame semplice da svolgere in ambulatorio, riusciamo a individuare dei parametri, cioè dei “biomarker”, che possono predire un deficit cognitivo e poi l’Alzheimer nei pazienti con diabete e retinopatia diabetica. L’obiettivo è molto ambizioso, infatti lo studio durerà tre anni, fino al 2024».
Per quanto riguarda le altre patologie, qual è lo stato di salute degli occhi degli italiani?
«Parlando della popolazione adulta le quattro patologie più diffuse, e con il maggiore impatto sulla vista, sono la degenerazione maculare senile, la cataratta, il glaucoma e poi, come già dicevamo, la retinopatia diabetica. La prima è una malattia legata all’età, in cui la parte centrale della retina si deteriora e smette di funzionare al meglio. Sopra i 55-60 anni interessa una fetta importante di popolazione: ne soffre circa un milione di italiani e ogni anno ci sono più di 60mila nuovi casi. La cataratta invece è un’opacizzazione del cristallino, quella lente che serve a mettere a fuoco le immagini e si trova dietro l’iride, la parte colorata dell’occhio. È legata all’invecchiamento, ma è una patologia facilmente curabile. Pensate che quello per curare la cataratta è l’intervento oculistico più frequente nel mondo e in Italia, con più di 550mila operazioni l’anno. Poi c’è il glaucoma, una malattia che colpisce il nervo ottico, insidiosa perché asintomatica fino agli stadi più gravi e finali, quando porta al restringimento del campo visivo. Nel nostro Paese è la seconda causa di disabilità visiva e cecità».
Come ci prendiamo cura dei nostri occhi, come possiamo fare prevenzione per queste malattie? Cosa consiglia anche a chi non ha avuto mai problemi di vista?
«L’importante è avere consapevolezza di quanto siamo fondamentali i controlli periodici. Sono basilari specialmente se in famiglia abbiamo casi di patologie della retina, se si fuma, se si ha il diabete, se si è in sovrappeso. Ma anche chi è estraneo a questi fattori di rischio, almeno una volta l’anno, dovrebbe fare una visita dall’oculista».
di Giulia Masoero
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