Corriere della Sera del 23/06/2021
L’abbiamo preso dall’inglese dove prima definiva un gioco con scommesse, poi nell’ippica un correttivo per limitare i cavalli più forti e far partire tutti alla pari.
di Paolo Fallai
Come lo vogliamo chiamare un disabile? Handicappato, invalido, menomato, minorato. Il dibattito sulla definizione corretta è molto acceso. Per decenni ha prevalso un uso scorretto e spesso offensivo di numerosi termini che si riferiscono alle persone con disabilità, «inabile», «handicappato», «portatore di handicap», «ritardato», «invalido». Per non parlare di grandi arrampicate sugli specchi del «diversamente abile». A noi che siamo «diversamente accomodanti» e quindi piuttosto testardi, piace concentrarci sulle origini.
Un gioco d’azzardo
Abbiamo preso la parola handicap dall’inglese e l’abbiamo fatto molto presto, se Tullio De Mauro nel suo dizionario ne attesta l’uso fin dal 1882, addirittura dal 1754 con riferimento diretto alla locuzione da cui deriva: hand in cap, letteralmente «la mano nel cappello». Nome di un antico gioco d’azzardo in cui venivano estratti a sorte dei gettoni, ma usato anche nel mondo delle scommesse per «coprire» con la mano il denaro che era stato puntato e che si trovava, appunto, nel cappello.
L’ippica che passione
Ed è proprio al mondo dei cavalli che dobbiamo l’evoluzione di handicap in svantaggio. Si definisce con questa parola la limitazione imposta ai cavalli troppo forti per rendere le gare più equilibrate. Insomma, se un puledro è considerato troppo veloce, lo si fa partire trenta metri dietro agli altri, oppure con un peso ulteriore di qualche chilo. L’obiettivo è rendere pari le possibilità di vittoria a tutti i partenti. Questa la condizione delle «gare a handicap».
L’evoluzione figurata
Un’espressione nata per indicare una condizione sfavorevole, uno «svantaggio» (dimenticando subito che si applicava solo ai più forti) si è conquistata la possibilità di definirlo in modo generale, fino a delineare una menomazione fisica o mentale. Prendiamo dal contributo di un bravissimo linguista come Federico Faloppa per l’Accademia della Crusca, l’evoluzione di questo passaggio: «Nei primi decenni del Novecento, dal linguaggio sportivo la voce sarebbe poi passata ad altri ambiti (“L’interventismo bissolatiano ha handicappato il socialismo di Turati”, scrive Luigi Ambrosini su “La Stampa” del 17 maggio 1920), tra cui quello medico-sociale, con significati oscillanti e non sempre definiti ma comunque basati sull’idea di svantaggio, deficienza, incapacità fisica e mentale”».
Oltre l’insulto
La diversità (di qualunque tipo) è sempre stata fonte di definizioni sprezzanti come spastico, mongoloide, cerebroleso ma anche minorato, infelice. Riprendiamo il filo dell’analisi di Faloppa per la Crusca: «“Nelle loro accezioni medico-sociali handicap e handicappato (in forma quest’ultimo tanto di sostantivo quanto di aggettivo) sono stati avvertiti come legittimi (e semanticamente neutri) almeno fino agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso. Non a caso, ancora nel 1992, la Legge quadro 104 si proponeva di normare “l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Tuttavia, durante lo stesso decennio, si è assistito a un significativo avvicendamento tra le coppie handicap/handicappato e disabilità/disabile. Questa ristrutturazione terminologica – abbastanza recente in Italia - era in atto da tempo, se già nel 1976 le Nazioni Unite proclamano il 1981 “anno internazionale delle persone disabili” (il testo originale inglese recita “disabled people”), con lo scopo di garantire piena partecipazione sociale e uguaglianza economica alle persone “con disabilità” (e a questa iniziativa fa seguito, nel 1982, la risoluzione 37/52 dell’Assemblea Generale dell’ONU, che stabilisce il Programma di azione mondiale riguardante le “persone disabili”)».
Spunti di riflessione
«Ma disabile – prosegue Faloppa per l’Accademia della Crusca - deve essere apparso, specialmente in registri medio-bassi, come un’opzione artificiosa: dettata più dalla ricezione di modelli altri, e forse da esigenze di “correttezza politica” (è proprio negli anni Novanta, d’altronde, che nel nostro paese esplode il dibattito sul “politicamente corretto”, con toni, a onor del vero, fin troppo affrettati e isterici), che non dall’uso. Di qui la persistenza di handicappato, che infatti – se in inglese è di fatto scomparso dall’uso – in italiano è ancora decisamente diffuso, almeno nelle varietà meno formali».
Digressione sull’abilità
Disabile viene dal verbo latino habere, cioè avere, da cui habilis nel significato di maneggevole, adatto. L’origine del nostro abile ricopre una vasta gamma di significati, da «capace» a «provetto». Inoltre, come segnala il dizionario Hoepli,
«-abile» è diventato, nella nostra lingua, un diffusissimo suffisso che, unito a verbi della prima coniugazione, dà luogo ad aggettivi che indicano idoneità: mangiabile, trasportabile, stirabile; oppure qualità morale: amabile, stimabile, deprecabile eccetera. Il contrario di abile è inabile, cioè «incapace». Quando l’incapacità deriva da limitazioni fisiche arriviamo a disabile. Lo stesso dizionario segnala che c’è chi dice diversamente abile, ritenendo che dis-abile crei una dis-criminazione. E questo secondo l’etimologia, dal tardo latino discriminatio, vorrebbe dire distinzione, separazione, e peggio ancora, esclusione. Ma siamo sicuri che l’eufemismo diversamente abile sia più rispettoso che non l’onesto disabile, verso chi dolorosamente porta una sua disabilità?
Eufemismi?
Questo discorso porta il dizionario Hoepli ad aprire una breve parentesi sull’eufemismo, vezzo dei nostri giorni molto diffuso e non solo nel giornalismo. «Dal greco eu phemì, cioè “parlo bene”, deriva il termine eufemismo che sta ad indicare l’uso di una parola o una frase gradevole o attenuata per significare cose che in sé suonerebbero sgradevoli o dolorose. Oltre a diversamente abile per disabile si possono fare vari esempi: situazione non facile per indicare una situazione difficile; “è mancato” per dire “è morto” (una volta si diceva “è passato a miglior vita”); mobilità al posto di disoccupazione; ma anche lucciole per prostitute. Se ben ci pensiamo, anche killer al posto di assassino è un eufemismo. Spesso l’uso dell’eufemismo dà un tono di poca chiarezza e di poca sincerità al discorso».
Un simpatico ubriacone
Per gratitudine dovremmo fare un monumento a Reginald «Reg» Smythe che nel 1957 dette vita sul Daily Mirror alla striscia satirica Andy Capp, giocando con l’assonanza con la parola handicap: il protagonista, ubriacone e indolente, ha fatto sorridere milioni di lettori in tutto il mondo, scatenando solidarietà per la moglie in milioni di lettrici. In Italia è arrivato con la traduzione «Le avventure di Carlo e Alice», che più o meno rende un 2 per cento rispetto all’originale, ma ebbe successo lo stesso, data l’irriverente simpatia di questa canaglia. Per inciso le sue avventure sono state pubblicate su 1700 giornali in 17 lingue diverse.
Per capirci
La disabilità non è una scelta e l’handicap non è mai sovrapponibile a chi ci deve convivere. A parte gli insulti, cui ogni disabile è abituato, non sono meno fastidiose le formule edulcorate con ipocrisia. Basterebbe ascoltarli per capirlo. Coloro che hanno problemi di udito si chiamano sordi tra di loro, mai «non udenti». E la meritoria associazione che da sempre accompagna e assiste chi ha un difetto alla vista si chiama «Unione italiana ciechi e ipovedenti». Nessun bisticcio di parole può risolvere la discriminazione o abbattere una barriera architettonica. Per quello servono sensibilità e cultura, merce rara.
Postilla personale (non ripetibile)
L’autore di queste notarelle si permette di parlare del tema in libertà, essendo disabile, handicappato, invalido, menomato. Claudicante è troppo colto e poi chi se lo ricorda che deriva da Claudio che in latino voleva dire zoppo. Ma a Roma se qualcuno cammina storto, indipendentemente dalle cause, lo chiamano da sempre sciancato. E l’autore lo preferisce, senza esitazioni.
Nessun commento:
Posta un commento