Corriere della Sera del 08/03/2022
PAVIA. Il 24enne vive a Pavia, dove è arrivato malato di una leucemia che in Ucraina non potevano curare. Ora per la ong Soleterre fa da interprete per i bimbi malati trasferiti nella pediatria dell’Irccs lombardo.
«Se avessi potuto, sarei tornato in Ucraina ad aiutare la mia gente». Se avessi potuto Oleg lo ripete di continuo, da quando è iniziato l’accerchiamento dell’Ucraina da parte dei russi. Lui è nato e cresciuto a Leopoli. Lì ha la sua famiglia, i nonni, gli zii, gli amici, i compagni di università. Ma Oleg che ha 24 anni e oggi vive a Pavia, da cinque anni non vede più: ha perso la vista, racconta, «quando ero ancora a Leopoli; pensiamo sia stata una conseguenza delle cure cui mi avevano sottoposto nel tentativo disperato di curare la leucemia promielocitica di cui mi ero ammalato. Ora sono cieco». Ha trovato comunque una strada per aiutare i profughi. Con l’associazione Soleterre, che dal primo giorno del conflitto è impegnata nei territori di guerra per dare aiuto alla popolazione: ora lui è accanto ai piccoli pazienti oncologici che sono stati trasferiti all’ospedale San Matteo di Pavia. Fa da mediatore e interprete per loro e i genitori. Intrattiene i piccini. Li vizia anche.
L’impegno come volontario per Soleterre
«Sento per loro una infinita tenerezza. C’è un bambino che non mangia nulla da quando è arrivato. Lo capisco. È già difficile abituarsi a cibi abbastanza diversi dai nostri. Ma quando sei sotto chemio, tutto ti dà la nausea». Eppure ha trovato il modo di accontentarlo. «Gli ho portato una piatto che mi ha chiesto da Mc Donald. I medici ci hanno autorizzato. E ora vado a cercare un pizzaiolo che mi cucini la “crosta” della pizza. Perché a lui piace solo quella, la crosta». A un bimbo più grande ha procurato una chitarra. Oleg ha ripreso a studiare. Certo, ha accantonato il sogno di diventare medico. Ha invece seguito corsi di terapia occupazionale e ora ritenterà l’ammissione a Fisioterapia. «Per fare il fisioterapista mi servono le mani e gli altri sensi, non gli occhi». «Quando mi sono ammalato – racconta Oleg – avevo 19 anni e mi ero da poco iscritto a Medicina. E quando hanno detto a mia madre che non c’era più nulla da fare, che doveva riportarmi a casa, insomma che sarei morto, lei ha scritto a tutti gli ospedali italiani. Ci ha risposto il dottor Marco Zecca dal Policlinico San Matteo. Ha organizzato il mio trasferimento. Ed eccomi qui. Mi ha guarito. Mi ha curato con protocolli avanzati, farmaci innovativi, che in Ucraina non erano ancora disponibili».
Il racconto dei profughi
In ospedale, i profughi gli hanno raccontato dei giorni drammatici trascorsi negli scantinati, nei tunnel del metrò. E poi la partenza con i treni verso l’Europa. «La guerra in Ucraina c’è da otto anni. Dall’invasione della Crimea nulla è stato più come prima. L’occupazione era già in atto quando ero all’ultimo anno di liceo. Ma il mondo intero ci diceva che avremmo dovuto risolvere con la diplomazia, trattare con Putin». Lo chiamano dal quarto piano dove c’è la pediatria. Le famiglie arrivate qui con i loro bambini malati sono in tutto sei, le ha già conosciute. «Pantofole – dice –, dobbiamo portare loro le pantofole». Oleg non ha bisogno degli occhi. Ascolta, parla loro con dolcezza, si attiva per placare l’immenso dolore, il loro e il suo. Con l’Ucraina nel cuore.
di Paola D’Amico
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