mercoledì 13 luglio 2022

Retinite pigmentosa legata al cromosoma X: speranze dalla terapia genica

Osservatorio Malattie Rare del 13/07/2022

ROMA. Per molti bambini la visita dall’oculista è un momento ad alta tensione culminante con l’applicazione delle gocce di collirio midriatico per l’esame del fondo oculare. Questa pratica tanto temuta dai più piccoli - motivo per cui richiede una certa affabilità ed empatia da parte del professionista - è necessaria per ottenere una dilatazione della pupilla sufficiente per l’esame del fondo dell’occhio, indispensabile per una diagnosi di retinite pigmentosa. Delle distrofie retiniche a carattere ereditario la retinite pigmentosa è la più frequente e la più variabile in termini di modalità di trasmissione: autosomica dominante o recessiva oppure legata al cromosoma X. Per quest’ultima forma di malattia potrebbe presto arrivare una specifica terapia genica.

Per i pazienti affetti da retinite pigmentosa legata al cromosoma X e dovuta a mutazioni del gene RPGR, infatti, è al via un trial destinato a valutare l’efficacia della terapia genica messa a punto dalla biotech MeiraGTx e sviluppata grazie alla collaborazione con Janssen, società del gruppo Johnson & Johnson. Il trattamento è già stato testato in studi pre-clinici su modelli animali e nelle prime sperimentazioni di sicurezza sull’uomo, quest’ultime condotte su una ristretta corte di pazienti allo scopo di valutare la tollerabilità del prodotto.

“La retinite pigmentosa legata al cromosoma X ha esordio in età precoce, con la maggior parte delle diagnosi che si concentrano nella prima e seconda decade di vita del bambino”, spiega la dott.ssa Lucia Ziccardi, dell’Ambulatorio di Neuroftalmologia e Malattie Genetiche e Rare dell’IRCCS Fondazione G.B. Bietti di Roma. “Si tratta di adolescenti che giungono in ambulatorio accompagnati dai genitori perché non riescono a vedere bene al buio o non riconoscono gli oggetti presenti al margine del campo visivo. La loro visione periferica risulta compromessa ed essi inciampano spesso o vanno a sbattere lateralmente”. Inizialmente giudicati come casi di goffaggine, tali comportamenti supportano l’oculista nella definizione di una diagnosi che arriva solo dopo l’esame del fondo oculare.

“La difficoltà a collaborare dei giovani pazienti spesso rende complicato il percorso di analisi ma con l’esame del fondo oculare diventa già possibile visualizzare il pigmento intraretinico, che costituisce un’anomalia ed è il carattere distintivo della patologia”, aggiunge Ziccardi. “Di fronte a un nervo ottico pallido caratterizzato dalla presenza di vasi sanguigni filiformi, e al pigmento retinico, l’oculista trova conforto nella diagnosi inequivocabile di retinite pigmentosa”.

A questo punto si conferma la diagnosi con l’esecuzione dell’elettro-retinogramma e, laddove possibile, l’esame del campo visivo, quindi si avvia una serie di analisi sui parenti stretti del paziente, alla ricerca di altri membri della famiglia che possano essere affetti dai medesimi sintomi, magari non riconosciuti o non correttamente classificati. Ha così inizio un percorso che l’oculista e il paziente devono compiere insieme e che comprende anche l’esecuzione di un test genetico per la ricerca della specifica mutazione associata al gene responsabile della patologia.

Una volta fatto ciò, si comincia a pensare ai trattamenti per la retinite pigmentosa, che tuttavia, per il momento, puntano solo a rallentarne la progressione. Per questo motivo, è alto il livello di attesa per la nuova terapia genica, la cui sperimentazione si svolgerà anche presso l’IRCCS Bietti di Roma.

di Enrico Orzes

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