lunedì 20 aprile 2020

Covid-19: Le lezioni (non) apprese della Fase 0 di F. Capobianco, M.C. Perrelli, L. Scarola

Vita.it del 20.04.2020

Se da un lato la situazione di emergenza ha confermato la qualità del nostro sistema sanitario, incardinato su universalità e qualità della cura, dall’altro ha messo a nudo la fragilità di un sistema basato ancora sull’ospedale, dimostrandone la centralità rispetto al “sistema sanitario territoriale”. Ecco cosa cambiare. Il paper Nomisma.

Il dilagare dell’epidemia da Covid-19 sta mettendo in luce, con una forza senza precedenti, non soltanto il grado di preparazione del nostro Sistema Sanitario, ma anche le contraddizioni che lo stesso aveva ben prima del proliferare dei contagi. In più di un passaggio, i vertici della Protezione Civile hanno sottolineato la straordinarietà dell’emergenza che ha coinvolto il complesso della macchina pubblica e che non ha pietre di paragone con altri shock esogeni. Tuttavia, come verificatosi in tempi recenti con le emergenze post sismiche, fenomeni così dirompenti hanno evidenziato le carenze preesistenti nella nostra capacità di fronteggiarli.

Allo stato attuale delle cose, non è possibile effettuare un bilancio compiuto delle differenziate capacità di reazione dei sistemi pubblici al Coronavirus, non foss’altro perché anche la stessa comunità medico-scientifica è alla ricerca di driver attendibili dell’epidemia. Ricostruire il puzzle di cosa questo collettivo stress test ha messo in luce, invece, appare doveroso per immaginare nuove traiettorie organizzative dei diversi livelli sanitari e assistenziali messi in campo.

Se da un lato la situazione di emergenza ha confermato la qualità del nostro sistema sanitario, incardinato su universalità e qualità della cura, dall’altro ha messo a nudo la fragilità di un sistema basato ancora sull’ospedale, dimostrandone la centralità rispetto al “sistema sanitario territoriale”. Ciò è avvenuto sicuramente perché l’assistenza territoriale ha procedure meno sedimentate rispetto a quella ospedaliera e, quindi, in emergenza ci si è affidati alla macchina più “rodata”, ma anche perché il territorio, in molti casi, non si è mostrato sufficientemente “attrezzato” per la gestione dei pazienti meno gravi o non ancora in fase acuta.

LA FASE 0.

Eppure, in Italia, già dalla seconda metà del Novecento la visione ospedale-centrica è stata messa in discussione a favore di un avvicinamento del sistema di cura al territorio; anche se bisognerà aspettare i decreti di riordino del 1992 (Amato, De Lorenzo - DLGS n. 502) e del 1999 (Bindi – DLGS n. 229) perché questa tendenza trovi un esplicito riscontro. Tali riforme, infatti, hanno dato impulso ad uno spostamento dell’asse della governance tramite la trasformazione delle USL in vere e proprie Aziende, anche sulla base delle spinte alla ripresa di centralità degli aspetti organizzativi e tecnico-scientifici nella sanità. Tuttavia, l’ospedale tradizionale orientato alle acuzie e il sistema territoriale particolarmente frammentato continuavano a rivelare una inappropriatezza gestionale, con riflessi evidenti sull’offerta di cura che appariva dicotomica e scarsamente integrata in termini di livelli di assistenza. Solo nel 2012 è intervenuta la legge Balduzzi (n.189) che, insieme al Patto della Salute 2014-2016, ha riordinato il sistema delle cure primarie e, promuovendo l'integrazione con il sociale e i servizi ospedalieri, ha affidato alle Regioni il compito di riorganizzare i servizi territoriali secondo nuove forme organizzative e modalità operative (nascita delle aggregazioni funzionali territoriali -AFT- e delle unità complesse di cure primarie -UCCP-, che mirano all’erogazione “a rete” delle prestazioni assistenziali). Parallelamente, i distretti, “fronte” dell’integrazione e garanti dell’equilibrio tra le filiere di cura, si sono evoluti a seconda degli indirizzi nazionali e degli orientamenti strategici regionali; le Regioni hanno dedicato investimenti all’organizzazione di cure e strutture intermedie per i pazienti deospedalizzati che necessitano di supporto sanitario in ambiti protetti; si è assistito alla nascita di molteplici nuove strutture polifunzionali (ad esempio, Case della Salute) per la continuità assistenziale e il soddisfacimento dei bisogni socio-sanitari. Dal 2012 ad oggi i processi di cambiamento e di sperimentazione non si sono mai arrestati e diversi Servizi Sanitari regionali (fra cui quelli di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna) hanno emanato riforme e piani sociali e sanitari ambiziosi, che hanno portato a modelli di assistenza territoriale diversificati.

Descriverli dettagliatamente nelle loro procedure di funzionamento e di erogazione delle cure, nonché fornire una valutazione quantitativa e omogenea del reale grado di integrazione fra ospedale e territorio all’interno dei singoli contesti, rimane un’operazione complessa.

Quello che è immediato desumere dalla lettura dei dati disponibili è che, nell’Italia pre-Covid, l’accessibilità e la funzionalità dei servizi sanitari territoriali erano estremamente differenziati fra regioni.

Il “Rapporto sull’attività di ricovero ospedaliero SDO 2018” del Ministero della Salute evidenzia risultati molto diversi relativamente al ricorso alle strutture ospedaliere per selezionate patologie trattabili a livello territoriale, così come l’ultimo Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale sottolinea un’alta variabilità regionale in relazione a tutti i pilastri dell’assistenza distrettuale (numerosità di medici di medicina generale, pediatri e guardie mediche per 100.000 abitanti, casi trattati in assistenza domicilare integrata per 100.000 abitanti, dotazione di ambulatori e laboratori, ecc.). Questa eterogeneità è confermata dall’analisi degli indicatori relativi all’assistenza distrettuale considerati nell’ultima Griglia LEA (verifica dell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza).

LE LEZIONI (NON) APPRESE.

Nel 2017, Nomisma concludeva così un articolo sul grado di equilibrio ospedale-territorio: “Il livello di guardia sul ri-orientamento strategico verso la sanità territoriale deve rimanere alto. I dati dimostrano che la ridefinizione dei modelli di assistenza sta portando i propri frutti; allo stesso tempo i passi da compiere restano tanti. È vero che il rapporto ospedale-territorio non può essere valutato come mero trasferimento di prestazioni dall’uno all’altro, né misurato unicamente in termini di risparmio ottenuto. Tuttavia, è altrettanto vero che, in un contesto incerto e mutevole quale quello attuale, risulta cruciale prevedere strumenti di valutazione e controllo in grado di rilevare successi e criticità e suggerire correttivi”.

Avremmo tutti sperato che l’occasione per far questo non si presentasse a seguito dello scoppio di un’epidemia di questa gravità; tuttavia, la prova a cui il nostro Servizio Sanitario Nazionale è tuttora sottoposto, rende evidente l’improrogabilità di compiere concreti passi avanti in tal senso, ponendosi domande che alla luce dell’emergenza, appaiono quasi retoriche: l’assistenza ospedaliera sarebbe dovuta essere maggiormente coadiuvata da quella territoriale nella gestione dell’emergenza? Se i presidi territoriali e le strutture intermedie fossero stati più “attrezzati” (anche in termini di digitalizzazione dei servizi), le regioni avrebbero potuto gestire meglio i pazienti positivi non ospedalizzati? Si sarebbero potuti effettuare dei monitoraggi più efficaci?

Velocizzare la presa di coscienza di quello che lo shock Coronavirus ha messo prepotentemente in luce diventa quindi prioritario, così come sciogliere i nodi del processo di integrazione ospedale-territorio. Fra questi, vale la pena accennarne brevemente due.

SUPERARE IL CONFINE TRA SANITÀ E WELFARE.

Quando si propone un ri-orientamento strategico verso la sanità territoriale, si deve mettere in conto una ridefinizione fondamentale dell’intero modello di prestazioni sanitarie che si incrociano con le prestazioni assistenziali. In una società profondamente mutata, dove le relazioni familiari e sociali sono dilatate, dove l’invecchiamento e la solitudine caratterizzano le aree interne e quelle urbane e il sistema sanitario deve supplire ad un arretramento dello stato sociale (oggetto di tagli decennali nei trasferimenti agli Enti Locali), è necessario che si acceleri il processo di integrazione tra sanità e welfare.

La salute è l’esito delle “relazioni” tra sistemi in cui è inserita la persona (famiglia, ambiente, formazione e scuola, lavoro, giustizia, ...); fra questi la “sanità” ed il “sociale” sono quelli per cui l’integrazione è essenziale per le forti interconnessioni e non può avere un modello unico di riferimento: sono necessari gradi di commistione diversi, ma serve raccordo e coordinamento, partecipato e condiviso, cioè una “governance” sia a livello regionale che locale.

La prospettiva di un nuovo, necessario, “paradigma sociosanitario” passa per la costruzione, congiunta, tra operatori della sanità (ASL e AO) e operatori del sociale (Comuni singoli e associati) di Percorsi Assistenziali Integrati Sanitari e Sociali in grado di: dare risposte sempre più appropriate e integrate ai bisogni di salute dei cittadini; determinare lo spostamento del baricentro dall’ospedale al territorio; sviluppare logiche di gestione integrata dell’offerta dei servizi sanitari extraospedalieri, sociosanitari e sociali; garantire la continuità assistenziale nei percorsi di cura intesa quale percorso integrato tra le reti dei servizi sanitari (ospedalieri e territoriali) e dei servizi sociali. Questi processi porteranno al superamento della contrapposizione o giustapposizione tra “sistemi sanitari” e “sistemi sociali”, per la realizzazione dei “sistemi di salute” (Cit. Nomisma, Sistemi Sanitari e Sociali in Europa e in Italia: Problemi, Opportunità e Tendenze, Bologna 2016).

Tra l’altro la presenza sul territorio nazionale di Fondazioni, associazioni con scopi assistenziali, ricreativi, sportivi e culturali rappresenta un apporto di risorse diverse nella presa in cura della persona, così come le risorse informali quali le reti vicinali, i condomini solidali e le altre forme di intervento solidaristico.

Si tratta di un enorme patrimonio nazionale che nell’ottica di un sistema integrato sanitario e sociale costituirebbe un asset strategico unico nel panorama mondiale.

INTERVENIRE SULL' "HARDWARE" E SUL "SOFTWARE".

Sempre esulando da valutazioni sugli applicativi tecnici maggiormente utili durante la fase epidemica, il consolidamento dell’”hardware” dei servizi territoriali deve necessariamente passare da un parallelo rafforzamento del “software” in ambito e ospedaliero e domiciliare.

È necessario, infatti, che la tecnologia faccia da ponte tra i due livelli di assistenza e che i flussi informativi siano fruibili a prescindere dal contesto in cui il paziente riceve le cure. L’enorme patrimonio informativo clinico, diagnostico e terapeutico viene, a tutt’oggi, in larga parte dilapidato: uno degli esempi più lampanti riguarda le cartelle cliniche ospedaliere le quali, “viaggiando” ancora su supporti cartacei, fanno sì che, nella stragrande maggioranza dei casi, le informazioni raccolte nella fase di monitoring del paziente vengano dissolte contemporaneamente alla dimissione dello stesso.

La strada da percorrere è ancora più lunga quando parliamo di nuove tecnologie a supporto della domiciliarità. Indubbiamente il Coronavirus sta accelerando l’utilizzo di app, mutuate da sperimentazioni nella cura delle cronicità, che consentono di monitorare i parametri dei pazienti a distanza, creando una preziosa esperienza che tornerà sicuramente utile anche quanto l’epidemia sarà scomparsa. Tuttavia, se in passato si fossero attuate maggiormente le linee guida relative all’utilizzo della telemedicina, probabilmente avremmo potuto ridurre per taluni casi l’impatto del virus e sicuramente si sarebbe potuta avere una maggiore continuità nel rapporto tra medico e paziente, con evidenti vantaggi anche sotto il profilo sociale e psicologico. L’impiego della telemedicina, invece, appare ancora marginale sia per ritrosie culturali dei potenziali pazienti sia a causa del digital divide tra generazioni e tra territori. Alfabetizzazione informatica per le fasce di popolazione meno avvezze ai “nuovi” strumenti e infrastrutturazione immateriale appaiono, quindi, il necessario presupposto ad accrescere la fiducia e l’accettazione verso questi tipi di strumenti.

F. Capobianco, M.C. Perrelli, L. Scarola*,
*Ricercatori Nomisma

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