Il Giorno del 11.04.2020
LA SCRITTRICE DESY ICARDI, IPOVEDENTE, SCAVA IN UNA MINIERA UMANA CHE DIAMO TROPPO PER SCONTATA.
TORINO. Nel tempo sospeso di questi nostri giorni, nelle ore che trascorrono senza frenesia, i gesti hanno connotazioni diverse. La sensibilità assume consistenza. Non è così scontato toccare un tessuto morbido, vedere i colori da una finestra, percepire i profumi nell'aria. E il corredo di questo presente, inimmaginabile solo tre mesi fa, può veicolare nuove consapevolezze e potenzialità, da custodire. Anzi, da allenare. Già, perché buona parte del nostro essere nel mondo passa attraverso i sensi. E a questi è dedicata la pentalogia della scrittrice torinese Desy Icardi. Una scrittrice che, paradossalmente, fatica a leggere a causa di una malattia degenerativa. Le pagine raccontano solo a chi può possedere le parole con gli occhi? «No, la lettura è un'esperienza multisensoriale. Adelina, la protagonista del primo romanzo della mia pentalogia, legge i romanzi con l'olfatto perché l'odore lasciato dagli altri lettori racchiude le loro emozioni. Il libro è il ponte per uno scambio tra persone e storie». In principio fu il «Profumo» di Suskind a dare 'senso’ all'olfatto. Lei stessa è partita da questo, perché? «Ho iniziato dal senso più antico e primordiale, suggestivo. Volevo scrivere un racconto, poi mi è sfuggita la mano, e mi sono trovata con un romanzo di quattrocento pagine». La ragazza con la macchina da scrivere del suo secondo romanzo ritrova ricordi perduti attraverso le dita che, quasi possedute, compulsano sui tasti della vecchia Olivetti rossa parole di un flusso di coscienza. Dalia scrive al buio, è il suo buio? «Vivo in un mondo sfuocato, ma non al buio anche se ne ho una paura atavica. Ma il buio è molto presente anche perché scrivevo d'inverno, il mattino presto. Certo, il romanzo più problematico sarà quello sulla vista perché il mio modo di vedere è diverso». Eppure, gli occhi dilatano le proprie possibilità come accade a Rosina, un altro suo personaggio, che quasi cieca sa essere veggente. Si può vedere lontano con altri sensi? «Sì e no. Rosina è un omaggio a me stessa, ma diciamo che la storia della disabilità compensata talvolta mi innervosisce perché non è detto che si sviluppino in automatico, senza lavorarci, altre capacità». Sembra suggerire che chi si riappropria del senso del limite, mai percepito come in questi tempi, può allenarsi a superarlo. Del resto, lei è formatrice aziendale: accettare la fragilità rende più solidi? «Assolutamente sì, sono contenta che si legga questo aspetto. Credo nella volontà di superare i propri limiti per farne, magari, un punto di forza. Ho fatto mio un vecchio proverbio piemontese che dice di fare il fuoco con la legna che abbiamo, cioè come si può. Dobbiamo riuscire a creare il fuoco dentro di noi». Lei ha un passato di cabarettista. Quanto è potente l'arma dell'ironia contro la forza delle difficoltà? «L'ironia è in grado di migliorare qualsiasi cosa o, quantomeno, di non peggiorarla. Alleggerisce un po’ i problemi e li disinnesca. Io tengo anche un blog dedicato alla comicità al femminile,
Patata ridens». Il sorriso è un senso aggiuntivo? «È uno dei tanti 'sesto senso’ che dobbiamo allenare perché è prezioso. La mancanza di senso dell'umorismo è una grossa disabilità. E, quella sì, non te la cura nessuna protesi». Ora è al lavoro sul terzo senso, l'udito. Che cosa le lascerà il silenzio delle città svuotate dal coronavirus? «Il paesaggio è simile, un paese ormai abbandonato. Probabilmente ci saranno echi di questi giorni in cui è netta la percezione di un silenzio vero, seppur innaturale, che amplifica suoni prima impercettibili. In una biblioteca, per esempio, ogni piccolo rumore è un boato, come oggi nelle nostre strade. Paradossalmente, nei luoghi del silenzio i rumori sono più significativi». La sua Dalia trova la felicità in un tempo a posteriori. La memoria è la lente per vederla? «Forse percepiamo la felicità nel presente, ma poi la vediamo con gli occhi dei ricordi. Questa è la maledizione dell'umanità».
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