lunedì 10 maggio 2021

Amaurosi congenita di Leber: la storia di Rosa, una mamma che non si arrende

Osservatorio Malattie Rare del 10/05/2021

Il suo obiettivo è trovare altri pazienti con la stessa mutazione genetica della figlia Jasmine: “Più siamo e più c’è speranza che si cominci una sperimentazione”.

Finché c’è vita c’è speranza. E Rosa non si arrende. Ha passato buona parte degli ultimi 15 anni a cercare una risposta, una cura, una prospettiva per sua figlia Jasmine, oggi 15enne, che all’età di due anni ha manifestato un problema della vista e, qualche anno dopo, un disturbo dell’udito. Ma sono occorsi anni e infiniti peregrinaggi da un ospedale all’altro per ottenere, solo all’inizio dello scorso gennaio, una diagnosi: variazione a insorgenza de novo p.Arg391Cys in eterozigosi nel gene TUBB4B, una mutazione associata, in letteratura, ad amaurosi congenita di Leber con ipoacusia autosomica dominante, come attestato dalla genetista Maria Piccione, coordinatrice del Centro Regionale Malattie Rare della Sicilia, Ospedale V. Cervello di Palermo. “Non mi aspetto il miracolo, ma almeno un miglioramento”, dice Rosa. “Soprattutto, confido di trovare altre persone che abbiano subito la stessa mutazione. Perché altri, come è accaduto a noi, potrebbero ancora brancolare nel buio. E perché più siamo e più c’è speranza che la malattia venga studiata e, magari, si cominci anche una sperimentazione”.

“Fino a poco tempo fa era difficile ottenere una diagnosi genetica perché presentava tempi troppo lunghi di indagine”, commenta la presidente dell’Associazione Retina Italia, Assia Andrao. “Individuare una malattia non è sufficiente, bisogna identificare qual è la mutazione genetica che l’ha determinata. Ogni caso potrebbe avere un’evoluzione diversa in funzione della specifica mutazione”, precisa Andrao. “L’iter diagnostico è comunque sempre lo stesso: ai primi sospetti, spesso rafforzati dalla presenza di altri casi famiglia, l’oculista, dopo una diagnosi clinica, prescrive un’indagine genetica, ma purtroppo non tutti riescono ad avere una diagnosi molecolare: ben il 40% dei pazienti non trova la mutazione. Inoltre, anche sul fronte delle terapie ancora non è stato trovato il modo per fermare o rallentare gli effetti della malattia” E poi c’è il problema del rapporto medico-paziente ovvero di come viene comunicata la diagnosi: “A volte ciò accade in maniera piuttosto violenta, senza dare alle famiglie speranza di una buona qualità della vita, specie quando si tratta di bambini. È un problema molto serio - insiste la presidente di Retina Italia - perché spesso i primi momenti sono determinanti rispetto al modo in cui i pazienti e le loro famiglie affronteranno la malattia”.

“Io e mio marito abbiamo notato le prime anomalie quando Jasmine aveva due anni e mezzo”, racconta Rosa, che si occupa di Jasmine anima e corpo. “Si può considerare figlia unica, visto che suo fratello aveva 23 anni quando è nata e oggi è anche lui padre di due bambine”. A destare sospetti nei genitori fu il fatto che, mentre giocava sul pavimento, la piccola cercava i giocattoli più piccoli a tentoni, perlustrando la superficie con le mani. “Quel tastare il pavimento con le dita ci appariva strano”, prosegue la madre. “Per questo le facemmo fare una visita oculistica da cui risultò una grave ipermetropia e nulla di più”. Nonostante i controlli frequenti, i primi tempi la situazione di Jasmine sembra stabile: i genitori riportano una sua difficoltà a orientarsi nella penombra, ma i medici trovano la cosa in linea con un’ipermetropia così pronunciata. “Finché all’età di otto anni, una dottoressa della ASL nota qualcosa che non le tornava. Prescrive subito un esame del fondo oculare, che rivela la presenza di retinite pigmentosa”. Da qui l’inizio di un peregrinaggio tra medici e ospedali di tutta Italia, fino a che la famiglia non trova un punto di riferimento nel Centro Ipovisione e Riabilitazione Visiva promosso dall’Associazione dei Retinopatici e Ipovedenti Siciliani (ARIS) di Palermo, dove vivono Jasmine e i suoi genitori.

“Col tempo la situazione di Jasmine è peggiorata e negli ultimi anni il suo campo visivo si è ristretto di molto”, ricorda la mamma. “Nel frattempo si è presentato il problema della sordità, che in un primo tempo avevamo attribuito agli effetti di un antibiotico. Ulteriori accertamenti, però, hanno messo in evidenza una perdita di udito neurosensoriale del 50% non adducibile all’uso di medicinali e compatibile, invece, con amaurosi congenita di Leber, nel caso di variazione p.Arg391 in eterozigosi del gene TUBB4B”. Oggi Jasmine è al secondo anno del Liceo delle Scienze Umane, che frequenta con ottimo profitto grazie all’amore per lo studio, la spiccata intelligenza e la buona memoria. “Certo, ha qualche difficoltà di relazione per via della sua mancanza di autonomia”, sottolinea sua madre. “È sempre insieme a me, non è indipendente nei movimenti. Sconta anche le difficoltà delle persone ipovedenti, che non vedono bene, ma non sono cieche, e per questo è come se si muovessero in un limbo dove non si sentono né carne né pesce. Ma noi proviamo in tutti i modi a garantirle una vita normale: a scuola ha un insegnante di sostegno e un assistente alla comunicazione, studia su libri stampati a caratteri ingranditi e, grazie all’utilizzo di vari ausili, riesce a superare la maggior parte delle difficoltà. Purtroppo, a complicare le cose è arrivata la didattica a distanza che, con l’utilizzo intensivo degli schermi, ha determinato un peggioramento della vista”. Ma Rosa e Jasmine non si scoraggiano, confortate dall’idea che forse un giorno la ricerca riuscirà a migliorare le cose. “La condizione di mia figlia è unica, per quello che io so”, conclude Rosa. “Ma forse, in giro per l’Italia e per il mondo, ci sono persone nella sua stessa situazione: è questo che mi piacerebbe sapere”.

Chi volesse mettersi in contatto con Rosa può inviare una mail all'indirizzo lettere@osservatoriomalattierare.it, indicando come oggetto "Amaurosi di Leber".

di Antonella Patete

1 commento:

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