martedì 12 aprile 2022

Davide Valacchi, non vedente, in bici da Roma al Kazakistan

Action Magazine del 12/04/2022

Ha pedalato 12.000 chilometri su un tandem. L’avventura in bici da Roma al Kazakistan di un ragazzo non vedente, raccontata dalla nostra Giusi Parisi.

Ormai da circa sei mesi partecipo molto volentieri alle iniziative sportive della fondazione per lo sport Silvia Parente. Dietro a queste iniziative c’è sempre l’infaticabile Davide Valacchi, che organizza tutto fino al minimo dettaglio.

Davide è un ragazzo non vedente di 31 anni, è laureato in psicologia clinica e ha come passioni principali i viaggi e lo sport. In particolare ama il ciclismo. Quasi per caso in questi mesi sono venuta a conoscenza del suo viaggio in tandem da Roma fino in Kazakistan. Ben 12 i Paesi attraversati, in un’avventura che è durata da marzo a ottobre del 2019, per un totale di circa 12.000 chilometri.

E così ho deciso di farmi raccontare questa appassionante storia, e poi di raccontarla a mia volta ai lettori di Action Magazine. Eccola.

Innanzi tutto com’è nata la passione per il tandem?

“Da piccolo amavo andare in bici. Con gli amici facevo giri sui monti Sibillini, dove vivevano i miei nonni. Senza saperlo facevo quello che oggi si chiama gravel, e ho continuato a farlo finchè il mio residuo visivo me lo ha consentito, cioè fino a 13 anni. Ad un certo punto ero arrivato a percepire appena solo la differenza cromatica fra la strada bianca e il verde dei campi”.

E così dalla bici sei stato costretto giocoforza a passare al tandem…

“Persa completamente la vista a 14 anni, infatti, a mio padre venne l’idea di farmi usare un tandem. Lo comprò in un centro commerciale di Ascoli, era un tandem da città. Io sono sempre stato un ragazzino di strada e ho continuato ad esserlo grazie a quel tandem. Mi ha aiutato anche a socializzare. Molti ragazzi infatti erano incuriositi dal mezzo e si avvicinavano per fare domande e provarlo. Quel tandem ha sicuramente reso più viva la mia adolescenza”.

È stato un amore che è proseguito negli anni?

“Durante l’università a Urbino in realtà ho mollato il tandem. Ho ricominciato ad andarci più tardi, dopo il trasferimento a Bologna. Ho comprato un altro tandem da città, un po’ più evoluto del precedente. Anche in questo caso il mezzo mi ha aiutato a socializzare. Ho conosciuto molte persone e ho iniziato a girare per la città e nei suoi immediati dintorni”.

E poi com’è arrivata l’idea del viaggio?

“Nell’estate del 2017 Marco, un mio caro amico di Fano, ha fatto un viaggio per l’Europa di quattro mesi e 7.500 km. Mi appassionai ai suoi racconti. Lo seguii sui social e tutti i giorni ci scrivevamo su Whats’app. Attraversò 12 Paesi tra giugno e ottobre. Poi, vedendo quanto mi ero appassionato, Marco mi spiegò tantissime cose sui viaggi in bici. Così ci venne l’idea di un’avventura insieme in tandem. Inizialmente doveva essere una prova, poi nelle nostre menti è diventato qualcosa di molto più grande: un viaggio fino a Pechino”.

Com’è proseguita l’organizzazione?

“Io e Marco abbiamo iniziato a studiare tutto nei minimi dettagli. Devo dire che io in particolare per l’organizzazione dei viaggi sono molto portato. Inizialmente Marco mi ha dato indicazioni sull’uso di portapacchi, borse, fornellino, tenda, sacco a pelo, materassino e tutto ciò che serve per dormire fuori. La regola dei viaggi in bici è che meno si spende, più tempo si può restare in giro. Quindi si risparmia sugli alloggi e sul cibo. Man mano che l’organizzazione procedeva, mi sono reso conto che questo progetto poteva essere qualcosa di ancora più grande. Avremmo viaggiato e raccontato la nostra esperienza per promuovere il tandem come mezzo di integrazione per le persone con disabilità visiva. Così Ho iniziato a contattare diverse associazioni e ho deciso che avrei concluso il viaggio donando il mio tandem. Questa espansione del progetto ha spaventato un po’ Marco che, pur a malincuore, ha deciso di mollare. Così ho iniziato a cercare altri compagni di viaggio e ho trovato Michele e Samuele. Nel frattempo ho iniziato anche ad allenarmi seriamente, facendo viaggetti di più giorni. Mi rendevo sempre più conto che quello che stavo organizzando era reale. Inoltre diventavo consapevole del fatto che il tandem è un mezzo che offre una libertà incredibile a chi non vede”.

In che senso?

“Innanzi tutto perché è un mezzo su cui chi non vede può dare il suo contributo attivo nello spostamento attraverso la pedalata. E poi non ci sono barriere fisiche con l’ambiente circostante. Ti arrivano suoni, odori, percepisci com’è il terreno che stai attraversando”.

Da dove viene il nome del progetto, I to eye?

“L’idea del nome è arrivata collaborando con un gruppo di ragazzi che gestiscono uno studio di video making e story telling a Bologna. I to eye è un gioco di parole che tradotto letteralmente sarebbe io all’occhio. Il logo è rappresentato proprio da un occhio. Il nome e il logo vogliono rappresentare un modo diverso di vedere il mondo: quello di chi non ha la vista. Il concetto è quello di guardare dentro se stessi attraverso il viaggio on the road, di confrontarsi e arricchirsi attraverso la conoscenza di nuovi luoghi e nuove culture. Senza la vista possiamo crearci un panorama alternativo grazie agli altri sensi, e in alcune situazioni siamo addirittura più avvantaggiati nel conoscere nuove persone. Ho potuto constatare questo durante il viaggio. Nei Paesi più poveri, in cui non è usuale vedere una persona con disabilità in bici, il fatto che io fossi cieco attirava le persone. Si avvicinavano a noi per conoscerci, e spesso ci invitavano a casa loro. Questo accade perché l’ospitalità in quei Paesi è sacra. Inoltre, non avendo la possibilità di viaggiare, ascoltano con interesse i racconti dei viaggiatori per conoscere culture e realtà diverse e lontane dalla loro”.

Perché hai scelto Pechino come destinazione finale?

“Ho scelto la Cina e in particolare Pechino perché è una delle aree più lontane da qui raggiungibile via terra. Ma soprattutto l’ho scelta perché per arrivarci avremmo dovuto attraversare tante zone diverse tra loro, dall’Italia all’est Europa, e tante culture: slava, turca, iraniana, persiana, le culture dell’Asia centrale… e infine la Cina, dove avremmo pedalato per più di 4.000 km attraversando regioni molto diverse fra loro. L’idea era quella di confrontarsi con le realtà che gravitano intorno al mondo dei non vedenti in ogni Paese attraversato, organizzando meeting nelle città principali con associazioni equivalenti all’Unione Ciechi italiana. Il viaggio avrebbe dovuto concludersi con la donazione del tandem a Pechino”.

Non siete però riusciti ad arrivare a Pechino…

“Non ci siamo arrivati a causa di problemi burocratici. Non ci hanno concesso il visto di ingresso nel Paese. Sapevamo che era impossibile ottenerlo da Kirghizistan e Kazakistan, ma contavamo sulla collaborazione del Comitato Paralimpico Cinese, che avrebbe potuto dialogare con gli enti consolari e garantirci l’ingresso attraverso un invito ufficiale. Purtroppo non hanno mai risposto ai nostri tentativi di contatto, reiterati per più di un anno, e nemmeno a quelli della FISPIC, la Federazione Italiana Sport per Ipovedenti e Ciechi. Sarebbe stato inutile donare ad ogni costo il tandem a un comitato che ci ha completamente ignorati, quando durante tutto il nostro viaggio siamo sempre stati accolti con estrema gentilezza da tutti i popoli e le federazioni che abbiamo incontrato”.

Qual è stata allora la vostra decisione?

“Abbiamo deciso di arrivare ad Almaty, in Kazakistan, per poi tornare indietro in Tajikistan e donare il tandem a Siyovush, un ragazzo non vedente di 31 anni. Si dà molto da fare per le persone con disabilità, insegna inglese in una scuola speciale primaria e, oltre ad avere un forte desiderio di andare in tandem, voleva sviluppare il ciclismo per non vedenti nel suo Paese. Lo scopo del viaggio è stato quindi ampiamente raggiunto”.

Raccontami qualcosa sui tuoi compagni di viaggio.

“I miei compagni di viaggio sono stati Michele Giuliano e Samuele Spriano. Michele, che ha guidato il tandem fino a Teheran, ha 41 anni e l’ho conosciuto a Bologna nel 2014 in un bar vicino a casa. Siamo diventati subito amici, inizialmente soprattutto compagni di bevute serali. Michele è una persona pacata e profonda, ama le cose belle e semplici della vita. Ama la cucina (tanto è vero che fa il cuoco), ma non è mai stato un grande sportivo, anche se si muoveva sempre in bici. È una persona che si fa molte domande, legge, e se gli entri nel cuore ci rimani per sempre. Prima del viaggio, il suo giro più lungo era stato di 50 km. Inizialmente aveva deciso di accompagnarmi fino a Istanbul, ma poi l’ho convinto ad arrivare a Teheran. Da lì sarebbe dovuto tornare in Italia, ma alla fine ha comprato una bici e tutto l’occorrente per continuare il viaggio con noi fino in Kirghizistan. Poi è tornato in Italia un mese prima di me e Samuele”.

E Samuele?

“Samuele ha 28 anni. Lo avevo conosciuto un anno e mezzo prima. Nonostante l’avessi incontrato solo una volta, seguendolo su Facebook, sapevo che sarebbe stato la persona giusta per proseguire il viaggio dall’Iran. Quando l’ho chiamato, sorpreso dalla proposta, mi ha detto che ci avrebbe pensato e che mi avrebbe fatto sapere entro qualche giorno. Cinque minuti dopo mi ha richiamato dicendo: va bene, partiamo. Mi ha detto di sì pur non sapendo che avremmo attraversato deserti, altopiani e Paesi completamente diversi dal nostro. Samuele è un grande sportivo, ha praticato e insegnato arti marziali e ora fa il personal trainer. Aveva già fatto un viaggio in bici in Spagna, ama la montagna e in generale vivere la natura in modo “selvaggio”. È sempre di buon umore, non l’ho mai visto arrabbiato. Lui ha guidato il tandem da Teheran fino alla fine del viaggio”.

Quali Paesi avete attraversato dunque?

“Abbiamo attraversato Italia, Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Turchia, Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Kazakistan”.

Raccontami qualche dettaglio sulla logistica del viaggio.

“Il nostro tandem era equipaggiato con due borse agganciate al portapacchi anteriore, due borse più grandi agganciate al portapacchi posteriore e un carrello agganciato dietro, su cui trasportavamo un’altra grossa borsa. In totale il tandem era lungo 4 metri, e con noi a bordo pesava dai 220 ai 250 kg, a seconda della quantità di cibo e acqua che trasportavamo. Chiaramente non era sempre così facile farlo procedere in salita. La quantità di bagagli era motivata dal fatto che restavamo in giro in stagioni e luoghi diversi. Per la prima parte del viaggio con Michele abbiamo dormito qualche volta in tenda, ma lui preferiva riposarsi su un vero letto appena possibile. Quindi abbiamo optato spesso per l’alloggio in hotel o guesthouse. Nella seconda parte invece abbiamo dormito di più in tenda, anche per una settimana consecutiva. Anche perché abbiamo attraversato luoghi più selvaggi. Infatti appena trovavamo un villaggio con una guesthouse ci fermavamo qualche giorno perché avevamo necessità di riposarci, pulire il tandem, ricaricare l’apparecchiatura elettronica. Nei Paesi più poveri poi, come accennavo prima, potevamo anche contare sull’ospitalità della gente locale. I miei compagni di viaggio guidavano e si occupavano della ciclo-meccanica e di cucinare. Mentre io, oltre ad aver trovato tutti gli sponsor e aver ideato il progetto, mi occupavo dell’allestimento del campo, del montaggio e smontaggio tende”.

In realtà però il viaggio non si è svolto a bordo di un solo tandem…

“Sì, ci sono stati due tandem protagonisti del viaggio. Il primo, a cui abbiamo dato il nome di Esmeralda, ci è stato donato da Diego e Cassandra, una coppia di Piacenza, che con il loro progetto Il tandem volante (https://www.facebook.com/iltandemvolante) dal 2015 raccolgono fondi per acquistare vecchi mezzi, rimetterli a posto se necessario, e donarli poi a chi ne ha bisogno. Possono essere Unione Ciechi, associazioni che si occupano di persone con sindrome di down o con autismo. Il 4 giugno 2019, dopo tre mesi di viaggio e 5.000 km, Esmeralda ha deciso che ne aveva avuto abbastanza. A 40 km da Tabriz, la seconda città principale dell’Iran, si è spaccato il telaio nel bel mezzo di una discesa, con il traffico delle auto di fianco a noi. Sembrava che il viaggio fosse destinato a finire, ma fortunatamente una settimana dopo avrebbe dovuto raggiungerci Samuele. E grazie al nostro main sponsor, la Fainplast di Ascoli Piceno, siamo riusciti a recuperare un altro tandem che è partito in aereo con lui. A questo secondo tandem abbiamo dato il nome di Bagheera, come la pantera del Libro della Giungla”.

E che ne è stato di Esmeralda?

“La abbiamo donata all’Unione ciechi di Teheran. L’hanno messa in un museo, dicendoci che la avrebbero poi usata, ma temo che sia rimasta lì insieme ad altri cimeli sportivi dell’Iran paralimpico. Questo da un lato mi fa stare tranquillo, perché girare in tandem a Teheran è una delle cose più pericolose che si possano fare, considerato il traffico e lo scarso rispetto delle regole stradali”.

Raccontami qualche aneddoto del viaggio.

“Ce ne sarebbero tanti da raccontare: dagli incontri con altri ciclo-viaggiatori a quelli con la gente del posto. Abbiamo conosciuto decine e decine di persone, che in alcuni casi ci hanno anche ospitato. Fra queste mi è rimasta nel cuore una famiglia del Tagikistan. Eravamo nel villaggio di Safedoron, a 2.400 metri di altitudine. Un villaggio poverissimo, con le case di fango e lamiere. Lì la gente vive di agricoltura di base e pastorizia. In quel periodo eravamo in quattro, perché con noi c’era anche Stefano, un ciclo-viaggiatore che ci ha affiancato per un mese. Questa famiglia ci ha ospitati, offrendoci pranzo, cena e colazione, e trattandoci come dei re”.

Come funzionava con la comunicazione?

“In qualche modo riuscivamo sempre a comunicare. In Asia centrale la gente parla russo o le varie lingue locali, raramente inglese. Comunicavamo un po’ attraverso Google translate, un po’ con i gesti… lo scambio umano è anche non verbale, e quando si ha davvero la voglia di parlare non c’è barriera che tenga. Neanche la mancanza della vista. Magari non erano discorsi articolati, ma riuscivamo sempre a farci capire e a toglierci curiosità reciproche”.

Avete attraversato tanti luoghi molto diversi tra loro anche dal punto di vista paesaggistico. Cosa è rimasto dei paesaggi, a te che non li puoi vedere?

“I paesaggi, oltre naturalmente alle persone, sono la cosa che mi è rimasta più impressa del viaggio. Può sembrare assurdo, visto che appunto non posso vederli. Invece, come già immaginavo prima di partire (e poi ne ho avuto conferma), si impara a interpretare i segnali dell’ambiente. Ci si costruisce insomma un paesaggio alternativo a quello visivo, attraverso i suoni, gli odori e la propriocezione. Per paesaggi intendo non solo quelli naturali, ma anche quelli urbani e umani. È bello sentire in Italia il dialetto che cambia chilometro per chilometro, e poi all’estero le diverse lingue. Percepire la differenza della strada da una città all’altra. Fra i suoni naturali amo quello dell’acqua, intesa in tutte le accezioni: dalla pioggia, ai fiumi, ai torrenti. Quando piove, l’acqua colpendo le superfici riesce a comunicarmi la forma e la sostanza di ciò che mi circonda. La presenza di corsi d’acqua, quando si va in bici, dà naturalmente più informazioni sull’ambiente circostante e, se ci si trova in vallate con la strada che segue il fiume, si riesce a capire la direzione che abbiamo seguito e che seguiremo. Anche l’aria comunica le sue informazioni. C’è differenza fra l’aria di un bosco o di una prateria al mattino. Posso rendermi conto se sono in un ambiente completamente aperto o in un bosco anche grazie alla presenza – che percepisco – degli alberi”.

E poi ci sono stati anche i deserti…

“Due sensazioni mi sono rimaste particolarmente impresse. La prima riguarda il deserto del Karakum in Turkmenistan. Karakum significa deserto nero. Infatti è costituito da sabbia e pietre scure, cosa che contribuisce ad aumentare il caldo percepito. Noi lo abbiamo attraversato a luglio, con temperature che superavano i 50 gradi. Viaggiavamo di notte, quando di gradi ce n’erano comunque 30. Ricordo bene la sensazione di questo ambiente completamente aperto e inondato dal sole, senza nessun punto d’ombra. Il caldo era terribile e secco, tanto che non appena il vento soffiava sentivo le palpebre scottare. L’altra sensazione riguarda il Pamir. È un altopiano fra Tagikistan e Kirghizistan dove abbiamo pedalato sempre oltre i 3.000 metri di altitudine, con tre incursioni oltre i 4.000. Lì c’era un’energia particolare, si percepiva la potenza della natura. Il vento era costante, fresco, purissimo. Siamo saliti sul Pamir dopo aver percorso la valle del Wakhan, al confine prima fra Tagikistan e Afghanistan, poi fra Tagikistan e Cina. Ci siamo ritrovati con la catena dell’Hindu Kush a destra, con le sue cime e i ghiacciai incombenti, e dall’altro lato il Pamir. Naturalmente i miei compagni mi descrivevano il paesaggio, ma riuscivo a percepire tutto questo”.

Come vivono le persone non vedenti nei Paesi che hai visitato?

“Non ho il quadro completo delle realtà di tutti i Paesi. Ho preso informazioni dai vari incontri che siamo riusciti ad avere. Abbiamo incontrato qualcuno in tutti i Paesi, tranne in Bulgaria. Quello che ho notato è che dalla Croazia in poi le persone cieche studiano solo in scuole speciali. Hanno forse il vantaggio di essere seguite meglio, ma a scapito dell’integrazione sociale. In quasi nessun caso ci sono istituti in cui i non vedenti vivono. Un esempio particolare è l’università americana dell’Asia centrale a Bishkek, la capitale del Kirghizistan. Qui tengono corsi della durata di un anno per ragazzi di tutte le età, in cui viene fornita un’istruzione di base e si impara l’autonomia domestica e la mobilità in città. In generale possono accedere a scuole e sport coloro che vivono in città. Chi abita nei villaggi difficilmente può studiare, tanto meno lavorare ed essere autonomo”.

Ho letto sulla pagina Facebook di I to eye di un evento con i cani guida a cui siete stati invitati ad Istanbul…

“Sì, a Istanbul abbiamo conosciuto Deniz Tuncer, la prima avvocatessa cieca della Turchia e la prima a possedere un cane guida. Il cane nei Paesi islamici è considerato un animale impuro, perciò non è ben visto il suo contatto con l’uomo. Istanbul fortunatamente è una città più aperta, e Deniz si sta battendo per far accettare il cane guida. Organizza eventi come quello a cui siamo stati invitati, per spiegare i vantaggi di possederne uno”.

Qual è la situazione sportiva invece?

“Lo sport viene visto in tutti i Paesi come una forma di socializzazione oltre che di svago. Nella maggior parte dei casi, però, viene svolto all’interno degli istituti. Ho notato un certo distacco fra i canali sportivi per persone con disabilità e quelli per normodotati. In alcuni Paesi, specie quelli governati da regimi dittatoriali, lo sport è visto come un modo per rappresentare al meglio il Paese. È il caso, ad esempio, del Kazakistan, dove agli atleti olimpici e paralimpici viene corrisposta una retribuzione mensile e, in caso di vincita di medaglie, un appartamento. Anche in Turkmenistan, governato da una dittatura totalitaria, si pratica tanto sport. Il ministro dello sport ci ha ospitati all’interno dell’istituto in cui vivono le persone con disabilità, e ha organizzato un meeting con alcune di loro. In quell’occasione ho conosciuto la campionessa di Power Lifting della categoria atleti affetti da nanismo. Mi ha fatto sorridere il fatto che le persone incontrate all’interno dell’istituto erano fra le più allegre del Turkmenistan. La gente fuori è apatica, senza possibilità di conoscere cose al di fuori del Paese. Naturalmente i social sono censurati”.

Quale Paese ti è rimasto nel cuore?

“Il paese del mio cuore rimane il Tagikistan, il più povero dell’Asia centrale, ma con una forte identità e voglia di modernizzarsi, sotto tutti i punti di vista. Si cerca di far avere un’istruzione migliore possibile anche alle persone con disabilità, e naturalmente di far praticare loro sport. La scuola in cui insegna Siyovush, ad esempio, è un edificio di nuova costruzione con una palestra in cui hanno anche i palloni da torball (gioco sportivo a squadre per non vedenti, ndr). Inoltre lui porta spesso il tandem che gli ho donato per farlo provare ai suoi alunni”.

Mi dicevi che gli hai mandato un secondo tandem recentemente…

“Sì, gli ho mandato via aereo un tandem da corsa nello scorso ottobre. Quel tandem mi era stato donato a sua volta da un signore abruzzese che me lo aveva affidato raccomandandomi di mandarlo dove ce ne fosse bisogno. Ora Siyovush si allena con questo secondo tandem. Bagheera è finito nelle mani del presidente del comitato paralimpico, che non ha nessuna intenzione di restituirlo. Purtroppo in Paese la corruzione è alta e possono fare un po’ come vogliono. Siyovush è riuscito ad usare Bagheera per un anno. Il presidente invece lo tiene chiuso in una stanza e lo tira fuori solo per eventi ufficiali, due o tre volte l’anno, per mettersi in mostra. Ho provato a dare una mano a Siyovush per recuperarlo, ma senza risultati”.

Molte persone non intraprendono viaggi di questo tipo perché temono di dover spendere tanto. Come avete gestito le spese e cosa consigli al riguardo?

“Il nostro viaggio, risparmiando il più possibile su vitto e alloggio, è costato 30.000 euro, tutto compreso. È stato quasi interamente coperto dagli sponsor e attraverso una raccolta fondi con cui abbiamo raccolto circa 6.000 euro. I principali sponsor sono stati Montura e Biotex, che ci hanno fornito tutto l’abbigliamento; l’azienda Fainplast di Ascoli, che ci ha donato in totale 11.000 euro; la cooperativa ascolana Ama Aquilone, la CBM Onlus di Milano, il Rotary Club, Makeitalia… e mi scuso se sto dimenticando qualcuno. La Fondazione per lo Sport Silvia Parente, che mi ha donato tra le altre cose il carrello, ho avuto modo di conoscerla proprio in occasione di questo viaggio”.

Com’è stato tornare in Italia dopo tanti mesi?

“È stato emozionante ritrovare persone che non vedevo da tempo. Ma tornare in un posto in pianta stabile, dopo mesi in cui ci si sveglia quasi sempre in un posto diverso, non è una bella sensazione. Soprattutto è stato difficile tornare in una società molto individualista come la nostra, dopo avere conosciuto i popoli dell’Asia centrale. Mi manca la solidarietà che si percepisce lì”.

Il progetto avrà un prosieguo?

“Per ora vorrei concentrare le mie forze sul Tagikistan. Mi piacerebbe tornare là, riattraversare il Pamir e conoscere altri posti che non ho visto del Paese. Magari, quando sarò riuscito a donare altri tandem, organizzerò un viaggetto di qualche settimana insieme a Siyovush e alle persone che ho conosciuto lì”.

di Giusi Parisi

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