martedì 11 gennaio 2022

"Il mio Nuovo Cinema Paradiso è una luce che fuga le ombre"

Il Giornale del 11/01/2022

Il bimbo protagonista del film che vinse l'Oscar nel '90, oggi ha 42 anni. E la sua lotta contro la cecità è diventata un modello di rinascita

Totò è nel labirinto. Cammina lentamente e tocca le pareti bianche del Grande Cretto realizzato a Gibellina tra il 1984 e il 1989 da Alberto Burri: un'opera d'«arte ambientale», icona al tempo stesso di distruzione (il devastante terremoto del Belice del '68) e rinascita (l'affannosa ricostruzione post-sisma). Possibile metafora della vita di Totò Cascio, all'anagrafe Salvatore Cascio, nato a Palazzo Adriano (Palermo) l'8 novembre 1979, descritto da Wikipedia come «attore italiano»; un intero universo racchiuso in due semplici - troppo semplici - parole. Ma Totò è uno scrigno ben più ricco di due banali monete. Nel suo forziere dei ricordi, i riflessi dorati di un'infanzia da bimbo-prodigio e le ruggini ossidate di un'età adulta incupita dalle ombre.

La vista che si affievolisce nel tempo, si appanna sempre più, fino a temere che il nero della notte prosegua pure di giorno. Un lungo zigzagare lungo i corridoi bui della sofferenza; ma la via d'uscita - dopo tante strade «chiuse» - è arrivata.

«Ora, finalmente, sono un uomo felice». Totò lo urla con orgoglio, consapevole forse che la luce negli occhi rimarrà un sogno impossibile; ma la luce - quella dell'anima - si è riaccesa. Per sempre. Non poco per chi aveva perso la speranza.

Totò è il diminutivo di Salvatore. Lui è Salvatore Cascio, il protagonista monello di «Nuovo Cinema Paradiso», fiore all'occhiello della cinematografia italiana: film premiato con l'Oscar nel 1990 grazie anche all'interpretazione di quel bimbo sapientemente diretto dal regista Giuseppe Tornatore. Un sodalizio che, a distanza di trent'anni dalla conquista hollywoodiana, si è ricostituito nel segno della solidarietà verso chi soffre. Totò e il suo regista-pigmalione non si sentivano da anni. Le loro strade dopo essersi fortunatamente incrociate nel 1988 e nel 1990 (nel film «Stanno tutti bene»), si erano divise: Tornatore impegnato nei grandi progetti di regia, Cascio intento a proseguire una carriera cominciata col botto.

Ma, per Totò, i bagliori dei fuochi d'artificio hanno iniziato ad appannarsi sul più bello. È ancora un ragazzino quando capisce che nelle sue pupille c'è qualcosa che non va. La diagnosi è racchiusa in due parole che annunciano un futuro oscuro: retinite pigmentosa, una rara forma di deficit visivo.

Per la famiglia Cascio è un brutto colpo. Che diventa ancor più devastante quando si scopre che la patologia ha colpito anche il fratello di Totò. I portatori sani del gene sono infatti i loro genitori.

È una condizione invalidante infida, dal decorso irreversibile: col passare degli anni la «nebbia» diventa sempre più fitta e i contorni delle persone che ti stanno accanto diventano sempre più indefinite e indefinibili. Per Totò, che sogna di continuare a fare l'attore, è uno choc. Si chiude in se stesso. Non rivela a nessuno il suo «segreto». È un percorso lungo e difficile, fatto di depressione e silenzi. Ma nel 2015 Totò acquisisce una nuova consapevolezza.

Quello è l'anno della prima svolta. Tu hai 35 anni. Cosa cambia nel 2015?

«Un mio amico, che viveva la mia stessa condizione - la chiamo così perché non considero la retinite pigmentosa una malattia - mi convince a intraprendere un percorso di sostegno psicologico. Mentalmente ero infatti a pezzi. Pensavo di farcela da solo, ma ero vittima dei pregiudizi».

Anche tu, come tanti, eri restio a rivolgerti allo psicologo.

«Sbagliando, lo consideravo il medico dei pazzi. E io non mi reputavo un pazzo».

Ma la «pazzia» non c'entrava nulla.

«L'ho capito fin dalle prime sedute. Davanti a me c'era una specialista sensibile e competente che, passo dopo passo, mi ha liberato da ogni insicurezza».

Trascorrono tre anni e, nel 2018 arriva la seconda svolta: quella decisiva.

«Sì. Decido di trascorrere un anno all'Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza di Bologna».

Qui diventi amico di Andrea Bocelli.

«Stringo rapporti intensi anche con tante altre persone, ognuna portatrice di storie meravigliose. Fatte di coraggio, impegno e perseveranza».

Ad esempio?

«Non dimenticherò mai quel padre non vedente che accompagnava la figlia alle feste tenendola per mano e spostandosi a piedi da un capo all'altro della città».

Ma la testimonianza di Bocelli lascia un segno particolare.

«Andrea è una persona eccezionale. Il giorno in cui gli confidai il mio stato di disagio, lui mi sostenne con parole che fecero breccia nel cuore e nella mente».

Cosa ti disse esattamente?

«Che non avevamo nulla di cui vergognarsi. E che, anzi, il nostro esempio poteva essere utile anche per gli altri nelle nostre stesse condizioni».

La svolta è ormai completa.

«I fantasmi sono alle spalle. Sono un uomo nuovo. Pronto a volare alto».

Una rinascita che coincide con la proposta di diventare testimonial Telethon proprio nella campagna per la cura della retinite pigmentosa.

«L'idea del regista Mauro Mancini è geniale: un cortometraggio che metta a confronto il Totò bimbo di Nuovo Cinema Paradiso con il Totò di oggi. Giriamo le scene tornando sui luoghi del film, puntando su una formula di amarcord dal doppio registro comunicativo: nostalgia e speranza. Al bando ogni forma di pietismo, la chiave espressiva è la positività nel futuro. E nei progressi della ricerca scientifica».

Ma per venire definitivamente allo scoperto e ingaggiare la tua nuova battaglia, avevi bisogno di una persona amica che ti desse una spinta definitiva.

«E quella spinta me l'ha data Peppuccio».

Chi è «Peppuccio»?

«Giuseppe Tornatore. Per me è Peppuccio, gli voglio bene come un fratello. È a lui che ho telefonato prima di accettare il progetto Telethon di Rai Cinema».

Raccontaci di quella telefonata.

«Feci il suo numero spinto sapendo che sarebbe bastato un attimo per ristabilire l'incanto di un tempo. E così fu».

Cosa ti disse «Peppuccio»?

«Capì immediatamente che, per liberarmi delle ultime streghe, avevo bisogno del conforto dei suoi consigli».

Una conversazione dall'effetto maieutico.

«Le sue parole di incoraggiamento sono state decisive».

E così Totò, l'ex piccolo aiutante di «Alfredo» (Philippe Noiret) il proiezionista del Cinema Paradiso, ha accettato la nuova sfida.

«Sì, la sfida di tornare nella piazza di Bagheria, lì dove nel 1988 tutto era iniziato. E finito. Ma dove, oggi, sono fiducioso che tutto possa ricominciare».

Dopo 30 anni di «pausa», di nuovo protagonista su un set. Il «film» ispirato dalla Fondazione Telethon si intitola «A Occhi Aperti», dura solo 20 minuti, non vincerà nessun Oscar ma sarà molto più utile a chi subisce la penombra della retinite pigmentosa.

«Agli scienziati il compito di trovare la cura, a noi quello - più modesto ma non meno importante - di dare un contributo in termini di sensibilità e di raccolta fondi per la ricerca».

Che sensazione ti ha dato tornare sui luoghi di «Nuovo Cinema Paradiso»?

«Un'unica, enorme, emozione. Fatta però di tanti flashback».

Descrivine uno.

«Ho riattraversato la stradina dove Peppuccio, durante la registrazione di una scena del film, mi sgridò a muso duro».

Motivo della sfuriata?

«Avevo 8 anni e c'era tutto il paese a guardarmi, compresi genitori, parenti e amici. Io mi atteggiavo a star e facevo qualche capriccio di troppo. Feci ripetere una scena tantissime volte. All'ennesimo ciak sbagliato, Peppuccio divenne una belva e mi urlò che a Roma erano scontenti e delusi dal mio comportamento».

Verità o bugia?

«Ovviamente era una bugia. Ma quel cazziatone, fatto a fin di bene, mi fece capire che il lavoro era una cosa seria, da affrontare con professionalità e spirito di abnegazione. Fu un'esperienza decisiva. È come se, in quel momento, da bambino mi fossi trasformato in adulto».

Difficile però rimanere con i piedi per terra quando, da bambino, si vincono premi internazionali battendo addirittura la concorrenza di mostri sacri come Al Pacino, Alan Alda e John Hurt.

«Io preferito ad Al Pacino. Per fortuna, a quell'età, non mi rendevo conto dell'enormità della notizia».

Tu pensavi solo a giocare a pallone.

«Il calcio era la mia passione. Quando ho dovuto smettere gi giocare perché non vedevo più il pallone è stato uno dei momenti più tristi della mia esistenza».

Fin quando la retinite non si è aggravata, sei stato un bimbo felice.

«Felicissimo. Viaggi, giochi, avventure, risate. Come quella volta in Giappone...».

Cosa accadde in Giappone?

«I giapponesi erano follemente innamorati di Nuovo Cinema Paradiso. Eravamo a Tokyo per registrare uno special sul film ed eravamo ospiti in un hotel da favola. Avevo notato che, a ogni piano, c'erano delle ragazze bellissime che salutavano con l'inchino i clienti che uscivano dall'ascensore. Passai ore e ore a salire e scendere facendomi fare l'inchino. Inoltre ebbi la soddisfazione di insegnare il siciliano ai giapponesi».

Giapponesi che parlano il siciliano?

«Sembra impossibile, lo so. Ma io ci riuscii. Dicevo una parola in dialetto siciliano e, finché loro non la ripetevano correttamente, io non li mollavo. Rischiai di farmi la pipì addosso per le troppe risate...».

Ironia e senso dell'umorismo fanno parte di te.

«Sono una persona allegra. E amo gli artisti che trasmettono gioia di vivere: Pieraccioni, Celentano, Fiorello, Bonolis, Verdone e tanti altri anche nel mondo dello sport come Alex Zanardi e Bebe Vio».

Dagli schermi del Tg1 Rai hai fatto gli auguri agli italiani citando la parola «fede». Quanto è stata importante la religione nel tuo percorso di consapevolezza?

«Tantissimo. Ho pianto e pregato per un periodo lungo della mia vita. La gloria è prova: siamo tutti bravi ad accettare la gloria, ma essa si vede soltanto nella prova».

Non a caso «gloria» e «prova» sono le due parole che danno il titolo alla tua autobiografia di prossima uscita.

«È un racconto non per salire in cattedra, ma per condividere problematiche di cui spesso non si percepisce l'esatta dimensione. Quell'anno trascorso all'Istituto Cavazza di Bologna è stato una fonte di esperienze straordinarie che mi impegnerò a far conoscere al grande pubblico».

A proposito di «grande pubblico», il tuo ritorno sulle scene ha riscosso un notevole consenso di popolarità. Te lo aspettavi?

«No. L'affetto della gente mi ha sorpreso. Temevo l'«effetto-commiserazione», invece i messaggi che ho ricevuto sono stati tutti di segno diverso: un costante invito a combattere per me e per gli altri».

A che stadio è attualmente la tua retinite pigmentosa?

«Negli anni ho perso prima la visione notturna, poi quella periferica della retina. Ormai vedo solo ombre e non distinguo più i volti. Se devo spostarmi in luoghi che non conosco ho bisogno di un accompagnatore. Risiedo in Sicilia dove la mia famiglia gestisce due supermercati, ma mi trasferirò a Bologna dove lavorerò sempre in campo artistico».

Quando hai interpretato «Nuovo Cinema Paradiso» avevi 8 anni. Ora che nei hai 42 qual è il concetto-chiave di quel film?

«Il concetto del sogno. E, per sognare, non c'è niente di meglio che un nuovo cinema. Capace, da solo, di portarti in paradiso».

di Nino Materi

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