Redattore Sociale del 02-03-2019
Giampiero Griffo, da poco nominato coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell'Osservatorio nazionale sulle disabilità, evidenzia obiettivi raggiunti e lacune da colmare: "Il modello medico va superato, sostituito dall'approccio dei diritti e della cittadinanza".
ROMA. Esattamente 10 anni fa, il 3 marzo 2009, l'Italia ratificava la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che il 13 dicembre 2006 era stata approvata dalle Nazioni Unite e pochi mesi dopo, il 30 marzo del 2007, il nostro Paese aveva sottoscritto. A New York quel giorno, ad apporre la firma dell'Italia, c'era l'allora ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero. Al suo fianco, Giampiero Griffo, componente del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), presidente di DPI Italia e, da gennaio di quest'anno, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. È a lui che chiediamo quindi di aiutarci a comprendere cosa sia cambiato in questi 10 anni, in che misura la Convenzione allora ratificata sia oggi effettivamente applicata e quali siano, invece, le lacune da colmare.
“A livello internazionale – premette Griffo – la Convenzione è diventata uno standard condiviso, visto che il 91,6% degli stati membri l'ha ratificata, adottandone l'approccio culturale, tecnico e legislativo, di cui devono tener conto per realizzare politiche, legislazioni e interventi. Basti pensare che l'Onu, in tutti documenti principali inviati agli Stati include sempre il "mainstreaming" della disabilità”.
E l'Italia? “L'Italia fa fatica: esaminata nel 2016 dal Comitato dell'Onu, è risultata sotto molti aspetti inadempiente. L'Onu però – precisa Griffo – non dà voti, non boccia e non promuove: fornisce invece delle indicazioni pratiche, tecnicamente delle 'raccomandazioni’, che dovrebbero servire al Paese per migliorare il livello di attuazione della Convenzione. Purtroppo però anche quelle raccomandazioni sono rimaste sulla carta e sono in gran parte inapplicate”.
La prima nota negativa rilevata nel nostro Paese dal Comitato dell'Onu è “l'approccio generale alla disabilità, che non è quello dei diritti umani, suggerito dalla Convenzione, ma è ancora un approccio medico-sanitario, che prevale sia a livello nazionale che regionale, violando quindi lo spirito della Convenzione”. Questo ha un impatto diretto e negativo anche sui sistemi di welfare regionali, che “non sono basati sulla valutazione e il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità e non si pongono l'obiettivo di offrir loro strumenti adeguati perché possano partecipare alla vita sociale. Noi persone con disabilità non siamo vulnerabili ma 'vulnerati’, perché mancano nel nostro Paese strumenti di empowerment”.
C'è poi un altro obiettivo fondamentale, che la Convenzione indica e che l'Italia non riesce a centrare: “è l'abilitazione. Una volta stabilizzato, io non ho bisogno di servizi riabilitativi ma abilitativi, che mi consentano di scegliere gli elementi che sono alla base di miei desideri. Questo approccio non c'è, perché mi vengono assegnati servizi predefiniti che non entrano nel merito della mia vita”. Niente (o poco) di fatto anche per quanto riguarda la vita indipendente e la vita in comunità, obiettivi previsti dalla Convenzione nell'articolo 19: “Le persone con disabilità – spiega Griffo - devono poter scegliere dove vivere e con chi, usufruendo di servizi di sostegno e potendo contare su una società totalmente accessibile. L'Italia è molto lontana da questo: secondo i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nel nostro Paese 273 mila persone con disabilità sono segregate in istituzioni, in cui costi di gestione mensili pro capite oscillano tra i 3.500 e i 6 mila euro. Noi sappiamo che bastano molti meno soldi per vivere in casa propria, avendo i sostegni di cui si ha bisogno”.
Eppure l'Italia, in questi 10 anni, qualcosa di positivo lo ha fatto: “Due programmi di azione biennale – ricorda Griffo – di cui solo il primo è stato attivato: ma delle oltre 100 azioni previste, meno di venti sono state realizzate, concentrate in alcune aree come la cooperazione internazionale. In quest'ambito, infatti, l'Italia è tra i Paesi più attenti alle persone con disabilità nelle aree in cui interviene con la cooperazione allo sviluppo”. Tra i risultati positivi, ci sono anche alcune “sperimentazioni in materia di vita indipendente, ma con cifre molto modeste – osserva Griffo – Il Jobs act ha poi introdotto alcune innovazioni positive per l'inserimento lavorativo, ma non sono state ancora applicate e mancano ancora le linee guida e i software per raccogliere dati”. In altri settori, “il nostro Paese mostra luci e ombre – continua Griffo – La scuola italiana, per esempio, è considerata tra le più inclusive nel mondo, ma la vera inclusione si avrà quando a farla saranno gli insegnanti curricolari e non solo quelli di sostegno: obiettivo ancora molto lontano”. Tanto da fare anche nel campo delle statistiche che “secondo la Convenzione, devono raccogliere dati su barriere, ostacoli e discriminazioni che impediscano il godimento dei diritti: si è fatto qualcosa – nota Griffo – ma molto ancora c'è da fare”.
L'obiettivo adesso, per far sì che la Convenzione in Italia divenga finalmente realtà oltre che legge, è “prendere in mano quelle raccomandazioni che l'Onu ci ha rivolto nel 2016 e metterle in pratica: potrebbero essere il contenuto del prossimo Programma d'azione”. Le tre priorità da cui iniziare? “Attenzione alla definizione di accomodamento ragionevole, l'impegno per la vita indipendente, che va saldato con il buon lavoro che ha avviato il Garante dei detenuti contro la segregazione negli istituti e, infine, l'elemento culturale: dobbiamo abbandonare il modello medico della disabilità, perché io ho un'esigenza di cittadinanza, oltre che di salute. E ho quindi bisogno di politiche che siano orientate a garantirmi una cittadinanza possibile, che mi permetta di partecipare liberamente e attivamente alla vita della comunità”. (cl)
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