martedì 18 giugno 2019

Le modifiche al Decreto sull'inclusione scolastica: altre riflessioni

Superando.it del 18.06.2019

Il dibattito in relazione alle modifiche del Decreto sull’inclusione scolastica, avviato da «Superando.it», è interessante ed evidenzia aspetti positivi e negativi da diversi punti di vista.

Indubbiamente ci sono passaggi condivisibili, come il tentativo di coinvolgere le famiglie, gli studenti con disabilità. Allo stesso tempo, però, si aprono contraddizioni e passaggi critici, come è stato evidenziato da diversi interventi apparsi su queste stesse pagine, ma soprattutto da quello di Flavio Fogarolo e Giancarlo Onger perché, assieme alle riflessioni come quelle riguardanti l’istruzione domiciliare, ha evidenziato l’assenza dei princìpi inclusivi.
L’inclusione.

L’articolo 1 del nuovo schema di Decreto, su Principi e finalità inclusive viene contraddetto dall’articolo 2, asserendo che l’intervento è rivolto esclusivamente a chi è certificato come persona con disabilità.

Questa categorizzazione crea una differenza in negativo, cioè, un gruppo altro. Ne consegue che il principio dell’includere assume la forma di un’azione esterna (certificazione) con categorie fissate che neutralizzano il senso inclusivo.

In questa dimensione si producono differenze sulla diversità in negativo, inglobando tutti in uno spazio anonimo e collettivo dove l’individualità viene annullata.

«Si è riconosciuti come soggetto non a causa di ciò che si è o di quello che si ha positivamente, ma in ragione di, o in seguito a, ciò di cui si è privati o separati, esclusi, rifiutati» (Pierre Macherey, Il soggetto delle norme, Ombre Corte, 2017, p. 210).

L’inclusione non richiede le categorie del deficit come proprietà interna alla persona, bensì l’idea che le differenze hanno una loro visione del mondo, modalità e strategie originali e differenti per viverci.

In sintesi, non viene posto il tema delle differenze imbrigliate nella classica interpretazione e rappresentazione di “distanza dalla norma o di identità”, ma come condizione essenziale per dare un significato alle relazioni.

Inoltre, il superamento della locuzione “disabilità certificata” è stata una scelta corretta, ma con le parole «accertata la condizione di disabilità al fine dell’inclusione scolastica» ha aggiunto due problemi: il primo conferma sia la categorizzazione che la certificazione sopra spiegate e il secondo mette in discussione il concetto dell’inclusione per tutti. Ne deriva che le alunne, gli alunni, studentesse e studenti con disabilità non sono inclusi in “tutti”, ma sono solo una partizione del “tutti”, fra deficitario e non deficitario.

Tale prospettiva, che ondeggia fra inserimento e integrazione, suppone, quindi, che per la maggior parte esista una categoria di alunne, alunni, studentesse e studenti già inclusa in quanto non deficitaria. Ma l’inclusione non è questa: essa è per tutti: “Eccellenze”, “Bisogni Educativi Speciali”, l’abbandono scolastico, la “normalità”, la “fatica di apprendere, l’eccellenza… tutti”!

Un ultimo sguardo agli strumenti: PEI (Piano Educativo Individualizzato), Piano per l’Inclusione, Progetto Individuale, la collaborazione tra più soggetti (che riprende il Piano di Zona previsto dalla Legge 328/00), perché mancano indicazioni chiare su come essi possano effettivamente fare emergere le barriere al processo inclusivo. Infatti, il Profilo di Funzionamento come punto di partenza per l’elaborazione del PEI deve contenere indicazioni per poter identificare e rimuovere le barriere alla partecipazione.

Cosa manca

Come è possibile decretare norme per la promozione dell’inclusione scolastica se si mantiene il silenzio sulle scuole speciali e sulle classi potenziate la cui presenza è stata evidenziata da Giovanni Merlo nel testo L’attrazione speciale.

Minori con disabilità: integrazione scolastica, scuole speciali, presa in carico, welfare locale (Maggioli, 2015), con attenzione alle famiglie?

Il Decreto sottolinea spesso la centralità della famiglia e dell’impatto problematico della disabilità, ma la condizione di solitudine delle alunne, alunni, studentesse e studenti rispetto al sociale, la percezione dell’abbandono, l’autoreferenzialità dell’istituzione scolastica sin dalla prima infanzia, e la sua difficoltà nella gestione degli alunni con disabilità più o meno complesse, l’assenza di reti sociali costringono le famiglie alla ricerca di una tutela attraverso strutture dedicate. Questo elenco, non esaustivo, ci permette di comprendere le cause della sopravvivenza delle strutture non integrative e non inclusive.

Questo silenzio incontra anche l’articolo 4 dello schema di Decreto (Valutazione della qualità dell’inclusione scolastica), strumento utile per coinvolgere le famiglie, la scuola, il territorio, le alunne, alunni, studentesse e studenti. Invece lo troviamo inerte, delegato all’INVALSI [Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, N.d.R.], debole e generico nei criteri.

Come, allora, si possono individuare e superare gli ostacoli alla partecipazione di tutti nell’apprendimento e nelle relazioni sociali scolastiche ed extrascolastiche? Quali criteri si indicano? Quali pratiche si possono applicare, a partire dalla scuola d’infanzia? Interrogativi centrali, questi, perché la scelta dei criteri e degli indicatori e delle pratiche non è un’operazione neutra, ma ispirata da visioni dell’educazione, del percorso formativo e delle differenze: ed è su questo terreno che si possono mettere a confronto le diverse prospettive e le diverse modalità di analisi, riconducendole alle matrici teoriche che ne ispirano l’utilizzo.

Un’altra assenza la ritroviamo nell’articolo 5/b, che fa riferimento al «profilo di funzionamento secondo i criteri del modello bio-psico-sociale»“(ICF [la Classificazione internazionale del Funzionamento, Salute e Disabilità, elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]), uno strumento, questo, la cui osservazione deve fare riferimento al sociale.

Ma dove troviamo il rapporto tra scuola e il sociale del territorio in termini concreti? Ci sono riferimenti di tipo burocratico, deleghe e relazione fra servizi e scuola (naturalmente utili), ma più in una prospettiva assistenziale, senza criteri che portano ad un progetto sociale attraverso il quale si costruiscono e potenziano relazioni amicali e di collaborazione nei contesti scolastici ed extrascolastici.

Alcuni penseranno che stiamo parlando di extra-scuola e che usciamo dal tema, ma se si parla di inclusione, non dobbiamo ragionare nell’approccio individuale, bensì nel sistemico, nei legami, nelle reti e nella responsabilità.

Spunti sull’accomodamento ragionevole

Il concetto di “accomodamento ragionevole” è richiamato dal nuovo testo, ma è utilizzato in modo fuorviante: il richiamo operato sembra infatti il frutto più di un’esigenza di “allineamento linguistico” che di una reale comprensione di cosa sia e come funzioni lo strumento citato.

Si tenga presente che l’accomodamento ragionevole è definito all’interno della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità così come segue: «Accomodamento [o soluzione] ragionevole indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali» (articolo 2, Definizioni).

In breve, l’accomodamento ragionevole ha una serie di caratteristiche: primo, si tratta di una soluzione estremamente individualizzata; secondo, l’accomodamento viene individuato instaurando un dialogo fra il soggetto tenuto a predisporre la modifica e la persona con disabilità interessata.

Non si tratta, perciò, di una soluzione standard valida per un insieme indeterminato e ampio di individui. Inoltre, perché possa instaurarsi un dialogo efficace, è necessario che vi sia un luogo istituzionale o meglio uno spazio entro cui attivare il confronto tra i soggetti coinvolti. Da un punto di vista strettamente giuridico, è necessario individuare una procedura attraverso cui, per poter essere ottenuto, l’accomodamento ragionevole venga richiesto.

Ancor prima di ciò, è fondamentale individuare quale sia il soggetto tenuto alla predisposizione dell’adattamento. L’accomodamento deve inoltre avere il carattere della necessità che è distinto da quello dell’appropriatezza: necessario è ciò che rende possibile l’esercizio del diritto o della libertà altrimenti preclusi; appropriato significa invece parametrato sulle esigenze specifiche della persona considerata. Dunque, la valutazione dev’essere compiuta rispetto ai bisogni da soddisfare, non in base al maggiore o minore impatto sulle risorse.

Nell’esperienza nazionale, l’“accomodamento ragionevole” è stato più volte richiamato in giurisprudenza, per esempio al fine di giustificare l’attribuzione di un certo numero di ore di sostegno a un alunno con disabilità per garantirgli in concreto il diritto allo studio (Tribunale di Milano, 10 gennaio 2011 e 19 marzo 2011; Tribunale della Spezia, 28 marzo 2011; Tribunale di Messina, 29 dicembre 2011). In sostanza, si è utilizzata una nuova definizione per qualcosa che era già previsto dalla legislazione italiana (nell’esempio concreto, un numero adeguato di ore di sostegno).

In questo modo è mancato completamente il dialogo preventivo, che la Convenzione ONU implicitamente richiede, teso ad individuare la migliore soluzione al caso concreto.

Punti problematici dell’accomodamento ragionevole sono:

1. nei testi normativi non è presente alcuna articolazione espressa di ciò che debba essere considerato accomodamento ragionevole;

2. per sua natura, l’accomodamento ragionevole non è esteso a tutte le persone con disabilità, trattandosi di un rimedio singolare e personalizzato;

Ma, soprattutto:

3. non è un istituto ben compreso da soggetti tenuti a porre in essere gli adattamenti, né dalle persone con disabilità potenzialmente interessate alla creazione di meccanismi di adeguamento ad esigenze specifiche, né dagli operatori legali che dovrebbero o potrebbero sfruttarne appieno le potenzialità. La mancanza di conoscenza è tale che, nell’uso dei giudici italiani, l’accomodamento ragionevole è anche diventato una “categoria logica” dell’argomentare giuridico e non – come invece è – una concreta modifica di un servizio (nel caso della scuola).

Si legga, ad esempio, quanto di seguito riportato: «la Corte [Costituzionale] ha […] chiarito che il sistema normativo (a seguito dell’introduzione della l. n. 67/2006) è caratterizzato dalla concreta valutazione di tutti gli interessi, sia di quelli dei portatori di handicap, che di soggetti terzi, e che il bilanciamento tra tali contrapposti interessi, tutti di pari rango, deve essere realizzato in sede contenziosa dall’autorità giurisdizionale mediante un “ragionevole accomodamento” che non imponga un onere sproporzionato ed eccessivo» (Tribunale di Reggio Emilia, Ordinanza del 7 ottobre 2011).

Ebbene, questa decisione rivela come il Giudice abbia (mal) compreso l’istituto, leggendolo attraverso i canoni della tradizionale ragionevolezza di stampo costituzionale, interpretando il nuovo strumento a disposizione come un richiamo al bilanciamento di interessi contrapposti. Ciò che l’accomodamento ragionevole cui si riferisce la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 non è.

Infatti, con il termine accomodamento – adjustment in lingua inglese – si indicano vere e proprie modifiche o, comunque, adattamenti di beni (quindi oggetti fisici) o servizi (potrebbe trattarsi di procedure che rendono accessibile ad un determinato soggetto qualcosa che altrimenti sarebbe a questi precluso); perciò, non si tratta di ponderare interessi, ma di modificare l’ambiente (materiale o immateriale, quindi istituzionale), che allo stato considerato porta all’esclusione del soggetto con disabilità.

In breve, l’accomodamento ragionevole non è la soluzione per l’inclusione dei disabili come gruppo omogeneo, che invece è garantita dalla progettazione universale e dal rispetto del principio del mainstreaming [inserimento dei provvedimenti riguardanti la disabilità all’interno di tutti i provvedimenti più generali, N.d.R.]. Il reasonable adjustment è la soluzione – a ben guardare più di fatto che di diritto –, che consente di garantire l’inclusione ad una specifica persona con disabilità in una situazione determinata.

Angelo D. Marra, Roberto Medeghini, Simona D’Alessio, Valentina Migliorini, Fabio Bocci, Giuseppe Vadalà ed Enrico Valtellina, componenti del Laboratorio di Ricerca Disability Studies (GRIDS) e Inclusione Scolastica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma 3.

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