Corriere Nazionale del 07.07.2020
Retinite pigmentosa: grazie a protesi retiniche artificiali i pazienti ciechi possono tornare a vedere. Possibile uso anche per la degenerazione maculare senile.
Nel suo resoconto sulla cecità, pubblicato col titolo “Il dono oscuro”, John Hull spiega la diversa percezione del reale di un uomo cieco rispetto a un vedente tramite un concetto valido anche per altri tipi di disabilità: “per il disabile lo spazio si contrae e il tempo si espande”. Esattamente il contrario di quello che punta a fare la moderna tecnologia. In riferimento alla possibilità di vedere, può quindi esistere un punto di incontro tra disabilità e tecnologia nel quale spazio e tempo trovino equilibrio? Le moderne protesi retiniche potrebbero fornire una risposta a questo interrogativo, come spiega il prof. Stanislao Rizzo, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, direttore dell’U.O.C. di Oculistica al Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma.
“Le protesi retiniche trovano impiego contro quelle malattie della retina che comportano la distruzione dei fotorecettori, ossia le cellule che trasformano gli impulsi visivi provenienti dall’esterno in un segnale elettrico”, spiega il prof. Rizzo, il primo chirurgo al mondo ad aver impiantato su un paziente cieco una retina artificiale. “Tra le patologie trattabili con l’impianto di una protesi retinica potrà esserci, in futuro, anche la degenerazione maculare senile, ma l’indicazione più classica, per ora, è relativa alle malattie degenerative della retina come la retinite pigmentosa”.
“Le protesi retiniche – prosegue Rizzo – possono essere epi-retiniche, cioè apposte sopra la retina, oppure sotto-retiniche, o ancora possono essere poste nello spazio sovra-coroidale, compreso tra sclera e coroide, più distante dalla retina vera e propria”. Anche se finora non è stato possibile fare un confronto di efficacia tra le tre tipologie di protesi, per via dell’esiguo campione di pazienti che possono attualmente trarre beneficio da questo tipo di intervento, nel settore si sta osservando una netta crescita di sperimentazioni.
“Il sistema Argus, che è quello più conosciuto, prevede un impianto sopra la retina”, spiega ancora l’esperto. “Questo sistema è composto da una telecamera miniaturizzata montata su un paio di occhiali, la quale invia le immagini a un mini-computer che il paziente porta con sé. Il computer invia segnali via wireless alla protesi posta sulla retina, cosicché questa possa ricevere un’informazione dall’esterno e stimolare le cellule retiniche sopravvissute, in particolare le cellule gangliari e bipolari, che sono ancora presenti negli stadi avanzati di una malattia come la retinite pigmentosa. Quello che fanno i fotorecettori, ossia trasformare uno stimolo luminoso in uno elettrico, in questo caso lo fanno gli elettrodi della protesi”.
A questo punto, però, la domanda che qualcuno potrebbe farsi è perché investire in questo tipo di tecnologia e non, ad esempio, nella terapia genica, che ha dimostrato di poter essere efficace anche nelle malattie degenerative della retina? “La risposta è che la terapia genica non è rivolta a pazienti completamente ciechi”, specifica il prof. Rizzo. “Le protesi retiniche, invece, sono un ausilio per i pazienti con visione assente. La terapia genica funziona se esiste un residuo visivo, ma non in caso di cecità completa. I campi di applicazione sono dunque molto diversi”.
Attualmente, quindi, a poter beneficiare di una protesi retinica è la specifica popolazione non vedente di pazienti: per comprendere le dimensioni della casistica idonea all’impianto basti pensare che se la retinite pigmentosa ha una prevalenza di circa 1 caso su 5.000 persone, i pazienti che potrebbero necessitare di una protesi sono circa 1 ogni 50.000 persone, o anche meno, e sono pazienti che spesso perdono la vista dopo i 50 anni, perché nei giovani la malattia non ha ancora fatto in tempo a distruggere tutto il tessuto retinico.
“Queste protesi permettono una visione parziale”, spiega Rizzo. “I pazienti passano dall’essere completamente ciechi a una visione rudimentale, su scala di grigi: hanno una parvenza delle forme fisiche che li circondano e riescono a identificare gli ostacoli. Simili risultati sono straordinari, ma chiaramente possono essere apprezzati solo da persone che non avevano più alcun residuo visivo. Tuttavia – conclude l’esperto – stiamo valutando apparati che permettano una miglior definizione dell’immagine percepita, per poter così ampliare il campo di applicazione di queste protesi. Il sistema Nanoretina, ad esempio, è dotato di circa 400 elettrodi, molti di più dei 60 di Argus: a breve dovrebbe iniziare la sua sperimentazione al reparto di Oculistica del Gemelli”.
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