Superando.it del 09.07.2020
«Per una vera cultura di inclusione nel lavoro – scrive Marino Bottà – non bastano “gendarmi” che vigilino sugli obblighi fissati dalle leggi e sanzioni per chi non le rispetta, ma servono educatori sociali e buoni consiglieri. E parlando di lavoratori con disabilità, sono necessari i “passeur”, ovvero figure professionali come i disability manager e i tutor e come dovrebbero essere il “mediatore 68”, il “buddy” e il “mèntore”, utili a facilitare il rapporto fra la disabilità e il mondo del lavoro, ma che potrebbero dare un positivo contributo a tutti i lavoratori, nonché alle imprese»
Appare appropriata l’immagine del pezzo che unisce due settori di un puzzle, per rappresentare i cosiddetti “passeur della disabilità”, ovvero quelle figure professionalmente preparate a supportare le persone con disabilità ad entrare nel mondo del lavoro e a conservare il posto conquistato.
Abbiamo già parlato, in un nostro precedente intervento su queste pagine [Disability manager: i ‘passeur’ della disabilità”?, N.d.R.] dei “passeur”, identificandoli come coloro che aiutano i clandestini a passare il confine, mentre i “passeur della disabilità” aiutano le persone con disabilità ad entrare nel mondo del lavoro e a conservare il posto conquistato.
Questi ultimi, quindi, sono operatori che svolgono la loro attività presso i servizi e nelle imprese pubbliche e private e vanno identificati nelle figure del disability manager, di cui si è appunto già detto, del tutor, del “mediatore 68”, del “buddy” e del “mèntore”.
La loro presenza condiziona fortemente l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità e l’approccio delle imprese verso gli obblighi di legge. Sono figure professionali ritenute indispensabile dai servizi accreditati al lavoro e apprezzata da quelle aziende che abbiano avuto il modo di sperimentarne la positività e l’efficacia.
Il tutor è l’operatore che affianca e sostiene la persona con disabilità durante il percorso di accompagnamento al lavoro. Tutti i servizi che si occupano di inserimenti lavorativi e del “mercato debole” del lavoro dispongono da sempre di questa figura professionale. Di norma il tutor ha una formazione universitaria di tipo psico-pedagogico, e lavora come dipendente o libero professionista presso enti accreditati al lavoro, servizi pubblici e privati, cooperative sociali.
Nata verso la fine degli Anni Ottanta, questa figura si è sempre più qualificata come l’unica in grado di curare l’integrazione socio-lavorativa delle persone in condizioni di svantaggio sociale. Purtroppo non è stato ancora riconosciuto dalle classificazioni professionali, pur essendo una figura destinata ad avere in futuro una rilevanza sempre maggiore, in quanto lo richiede la crescente complessità del mercato del lavoro e l’emergere di nuove fasce di popolazione a rischio di emarginazione e povertà. Infatti, attraverso la presa in carico della persona, attraverso l’individuazione delle sue capacità, competenze, bisogni, aspettative, potenzialità, punti di forza e di debolezza, elabora assieme a lui – ed eventualmente con i familiari e i servizi socio-sanitari – un progetto personalizzato di inserimento basato su una serie di azioni conseguenti, che vanno dalla valutazione delle competenze a quella del potenziale lavorativo, dall’orientamento all’attivazione di un eventuale tirocinio, dalla formazione in situazione al monitoraggio, sfociando infine nel rapporto di lavoro.
Con il passare del tempo, il tutor si è dovuto far carico anche della ricerca del posto di lavoro e delle consulenze all’azienda, azioni che non era in grado di gestire adeguatamente, non avendo la necessaria formazione, e che hanno compromesso la qualità e l’efficacia del suo intervento. A riprova di ciò sono lo scarso numero di collocamenti a contratto realizzati annualmente. Ma visto il crescente numero di categorie e persone in condizioni di svantaggio, vista la complessità del mercato del lavoro, i cambiamenti del mondo e la precarietà dei rapporti di lavoro, è utile valorizzare questa figura professionale, riportarla a curare le azioni di sua competenza e riscoprire l’affiancamento, la formazione in situazione e il monitoraggio: si tratta infatti di azioni fondamentali per conseguire risultati positivi e per sostenere adeguatamente l’inserimento dei soggetti più deboli.
In particolare è stato abbandonato l’affiancamento del tirocinante in azienda, un compito faticoso che richiede professionalità, esperienza e capacità pedagogiche, consentendo però un utile sostegno alla persona, alla conoscenza dell’ambiente di lavoro, e alla credibilità del servizio, premesse fondamentali per trasformare l’inserimento in assunzione e in inclusione. Queste azioni, infatti, si sono man mano affievolite, fino ad essere sostituite dal crescente carico burocratico che ha investito il settore lavoro-disabilità. Come poi già detto, i servizi accreditati al lavoro hanno successivamente gravato i tutor anche del compito di reperire i contesti di inserimento, ma la mancanza di una preparazione adeguata, e la non conoscenza del linguaggio imprenditoriale, hanno compromesso non solo quella che era la loro professionalità, ma anche la loro stessa necessità.
È quindi utile riscoprire questa figura e curarne la formazione e l’aggiornamento, operazione che non comporta costi aggiuntivi per nessuno, dal momento che le risorse sono già disponibili; bisogna solo comprendere che la disabilità non può essere orfana di tutor. Si lasci quindi ad altri il compito di fare scouting [“reclutamento”, N.d.R.] aziendale, offrire consulenze, e curare le procedure burocratiche per i vari adempimenti.
Come dunque finora detto, il percorso di inclusione lavorativa è interamente demandato alla figura del tutor, scelta che ha prodotto una serie di contraddizioni e che è stata, in parte, causa del fallimento occupazionale dell’attuale sistema del collocamento di persone con disabilità. Un’attività così complessa, infatti, dev’essere articolata attraverso una pluralità di azioni e prevedere l’intervento di più figure professionali, presenti presso i servizi e le imprese. A tal proposito è stato certamente sbagliato attribuire un compito pioneristico così complesso come l’ingresso nel mondo delle aziende profit ad un solo operatore, attrezzato esclusivamente di strumenti e competenze utili per i disoccupati e per i servizi, ma privo delle indispensabili conoscenze del mercato del lavoro e del linguaggio che viene utilizzato in tale contesto. Il processo inclusivo infatti, oltre alle complessità intrinseche, si struttura in ambiti sociali molto diversi, dove vengono utilizzati modelli di relazione e comunicazione differenti. È quindi consigliabile disporre di più figure professionali e avere una progettualità che preveda un intervento a staffetta fra operatori.
Grave, inoltre, è stato anche l’errore commesso nel momento in cui, nell’anno duemila, si decise di riformare il collocamento e costituire i Centri per l’Impiego Provinciali, senza pensare di ricorrere ad operatori adeguatamente formati, per gestire, coordinare e controllare il sistema del collocamento, i percorsi di accompagnamento al lavoro, e i portatori di interesse (stakeholder) coinvolti.
E ancora, doveva essere prevista una figura professionale che fungesse da cardine dell’intero processo di incontro fra la disabilità e il mondo del lavoro, fra i servizi e le imprese, fra la domanda e l’offerta di lavoro. Un operatore in possesso delle necessarie conoscenze del mondo delle imprese pubbliche e private, delle dinamiche del mercato, in grado di leggere i bisogni della singole aziende e di valutarne il potenziale occupazionale, affiancandole nel predisporre un progetto individualizzato per l’assolvimento degli obblighi, un progetto personalizzato analogo a quello previsto per le persone con disabilità.
Questo errore è dovuto al fatto che il Collocamento Disabili non si è mai sentito servizio anche per le imprese, che la persona con invalidità e l’imprenditore non sono mai stati considerati afferenti e utenti alla pari, rispetto alla Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili). In altre parole, non si è compreso, purtroppo, che il servizio, la persona con disabilità e l’imprenditore sono soggetti in pari misura alla Legge 68, e quindi protagonisti e artefici del collocamento al lavoro e dell’inclusione.
La figura professionale mancante, pertanto, la chiave di volta dell’intero sistema, la cerniera fra disabilità e lavoro, dovrebbe essere quella del “mediatore 68” al quale dovrebbe essere demandato il compito di comprendere le esigenze del Servizio Provinciale, i bisogni dell’azienda, e suggerire all’imprenditore le azioni e gli strumenti più adeguati. Egli, infine, dovrebbe seguire l’intero processo di assolvimento degli obblighi di legge. Proviamo a dipingerne un quadro possibile.
In collaborazione con l’azienda, il “mediatore 68” pianifica la scelta degli istituti e degli strumenti di legge, segue lo sviluppo delle procedure attivate, indica i servizi pubblici e privati e le cooperative sociali interessate ai progetti promossi e all’incontro tra domanda e offerta. Dal canto suo, anche l’azienda, al pari della persona con disabilità, ha diritto a un progetto personalizzato di assolvimento degli obblighi. Per questa ragione l’ attività del “mediatore 68” si svolge prevalentemente presso le aziende, dove ascolta i referenti (imprenditori, manager, direttori, capireparto ecc.), visita i reparti produttivi e il potenziale occupazionale, verifica le eventuali esperienze pregresse, con i servizi e con i disabili, e soprattutto ascolta e comprende i bisogni dell’imprenditore, prima di dare i suggerimenti ritenuti più opportuni.
È pertanto necessario che il “mediatore 68” sia in possesso di un’adeguata preparazione sul tema delle disabilità, del mondo del lavoro, del mercato del lavoro, del marketing sociale, il tutto costruito su un plateau scolastico di conoscenze psicologiche, pedagogiche, sociologiche, giuridiche e di economia, indispensabili per svolgere al meglio il proprio compito. Servono quindi percorsi formativi e programmi in grado di fornire le necessarie conoscenze e competenze professionali.
Alla formazione di tale figura si devono poi assommare qualità personali come la creatività e le capacità comunicative. Egli, inoltre, deve disporre di un ampio catalogo di opportunità, progetti, azioni, convenzioni e buone prassi, che lo aiutino a raggiungere con successo i propri obiettivi.
Ricordo al proposito uno zio di mia moglie, proprietario di un cravattificio. Quell’uomo girava per le Regioni del Nord con una valigia-campionario divisa in due ripiani sovrapposti, come in uso a quei tempi; nel primo ripiano erano allineate le cravatte standard cui dava la priorità di vendita, nel secondo, suddiviso in due scomparti, c’erano da una parte quelle a basso costo e dall’altra quelle più raffinate, che mostrava solo se il cliente non voleva acquistare le prime. A chi gli chiedeva come facesse a portare a casa tanti ordini, rispondeva che il segreto stava nell’accontentarli tutti!
Al “mediatore 68” spetterebbe quindi offrire all’azienda un’ampia possibilità di scelta, nonché strumenti adeguati ad ogni esigenza imprenditoriale. Una vera cultura inclusiva ha bisogno infatti di operatori preparati e rispettosi dell’Altro, che sia una persona con disabilità, un imprenditore o un servizio. Non servono “gendarmi” e sanzioni, ma educatori sociali e buoni consiglieri, perché il mondo della disabilità/lavoro non ha bisogno di “autovelox diseducativi”: l’autoritarismo e la repressione servono unicamente come deterrente e stimolo al rispetto delle regole, ma si illudono coloro i quali pensano di risolvere il problema delle evasioni dagli obblighi di legge ricorrendo all’avviamento numerico di vecchia data. Gli imprenditori, così come le persone con disabilità, hanno bisogno che i Servizi Provinciali li pongano al centro delle loro attenzioni.
Lo scorso anno la Regione Lombardia ha introdotto la figura del “promotore 68”, una buona intenzione che evidenziava, seppure in ritardo di venti anni, la necessità di disporre di qualcuno che fosse in grado di diffondere la conoscenza della Legge 68/99. Il compito formativo è stato però lasciato ai Servizi Provinciali, i quali hanno trasformato i nuovi incaricati in aridi controllori del rispetto degli obblighi, perpetuando e spesso peggiorando i rapporti fra gli Uffici Provinciali e le aziende. Infatti, i “promotori 68” si sono attivati solo nella seppur giusta marino.botta@umana.itricerca degli evasori, per poi imporre soluzioni d’ufficio più o meno penalizzanti. Un mero compito ispettivo, dunque, gestito inoltre senza un’adeguata esperienza e preparazione.
Purtroppo questo approccio sta rinforzando l’immagine di un Collocamento Disabili burocratico, rigido e autoritario. La cultura inclusiva non passa, come detto, dalla “gendarmeria dell’obbligo”, ma dalla mediazione e dallo spirito collaborativo. Gli ispettori sono necessari e servono come deterrente alle evasioni, non per educare all’inclusione. Le sanzioni da sole non educano al rispetto delle norme, ma rischiano anzi di stimolare l’astuzia per aggirarle. Si deve quindi pensare ad un Collocamento Disabili diverso, un servizio per le persone con disabilità e per gli imprenditori, per i servizi, per le cooperative sociali, per le associazioni, che sappia recuperare la centralità delle aziende, considerandole come protagoniste dei progetti inclusivi.
Non è possibile avere migliori risultati se si fanno sempre le stesse cose e nello stesso modo, così come è improduttivo insistere nell’incolpare le aziende e la Legge 68 delle proprie incapacità: serve invece una nuova architettura del Collocamento Disabili e la figura del “mediatore 68” potrebbe essere la chiave di volta dell’intero sistema.
Il disability manager, il “mediatore 68”, nonché il “buddy” e il “mentore” sono tutte figure utili all’azienda, ai servizi e al collocamento. Le aziende, ad esempio, hanno realmente la necessità di poter disporre di una figura in grado di svolgere il ruolo di prima accoglienza. In molte imprese anglosassoni è facile incontrare un operatore, chiamato “buddy”, che ha il compito di accogliere i nuovi dipendenti. A lui è demandato l’incarico di presentare l’azienda al nuovo arrivato, illustrare le regole e i comportamenti richiesti, favorire l’accesso ai vari servizi e presentarlo ai colleghi.
In una fase di continuo turnover e di presenze diverse di genere, di età, di cultura, è utile per l’azienda e per i lavoratori disporre di qualcuno che li accolga e spieghi l’organizzazione, la gerarchia, i regolamenti e le consuetudini interne. Questa figura, con un’adeguata formazione psicopedagogica, potrebbe rivelarsi particolarmente utile non solo per le persone con disabilità, ma per tutti i lavoratori dell’azienda, e con il passare del tempo potrebbe acquisire un ruolo di tutor per ogni lavoratore. Un punto di riferimento e di supporto al quale tutti i dipendenti potrebbero fare riferimento per favorire lo sviluppo di un clima di lavoro positivo. Il “buddy” potrebbe quindi essere l’espressione dell’attenzione che l’azienda ha verso se stessa e i lavoratori.
Un’altra figura già implicitamente presente in azienda è quella del “méntore”, ossia il collega cui viene affidato il compito di istruire il lavoratore neo-assunto. A lui spetta la formazione alla mansione, all’uso delle attrezzature e degli strumenti utili allo svolgimento dei suoi compiti e il suo ruolo si esaurisce nel momento in cui il nuovo arrivato è in grado di svolgere l’attività in autonomia.
Nel caso di inserimento di un lavoratore con disabilità, il “mentore”, dopo essersi confrontato con il tutor del servizio accreditato, si appresta all’attività di formatore, rivestendo un ruolo chiave nella fase di inserimento e nelle decisioni che l’azienda prenderà in merito all’esito del tirocinio o del periodo di prova. Sarebbe quindi particolarmente utile che il tutor del servizio promotore dell’inserimento curasse il rapporto con questa figura aziendale, volendo raggiungere il proprio obiettivo occupazionale.
In conclusione, si può dire che tutti questi “passeur” nascono come figure professionali utili per facilitare il rapporto fra la disabilità e il mondo del lavoro, ma visto l’attuale mercato del lavoro, potrebbero essere utili per tutti i lavoratori e per le imprese.
Il disagio cresce fra chi cerca lavoro e non sa come fare e fra chi ce l’ha e fa fatica a conservarlo. I mediatori “storici” che ne rappresentavano le istanze e il disagio perdono le potenzialità rappresentative, e anche la solidarietà fra pari ha lasciato posto all’individualismo. Dobbiamo comunque decidere se lasciare il rapporto fra il lavoro e il lavoratore nel caos dell’improvvisazione o prevedere utili presenze e progettualità, trovando un nuovo modo di creare relazioni e collaborazioni fra lavoratori e imprese, per migliorare le condizioni di lavoro e anche la produttività. Lo star bene fa bene a tutti!
* Marino Bottà,
Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@umana.it).
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