martedì 4 settembre 2018

Inclusione lavorativa: coinvolgere le aziende senza pregiudizi e rigidità

Superando.it del 04-09-2018

«È ancora lontana – scrive Marino Bottà – una diffusa cultura inclusiva da parte del mondo del lavoro. Ma questo non è imputabile solo alle aziende. Bisogna infatti che i servizi per il Collocamento Disabili comprendano che l’informazione, la formazione e il coinvolgimento sono prioritari rispetto agli obblighi di legge. Bisogna che chi opera a favore dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità eviti di rivolgersi alle aziende con le loro stesse rigidità e pregiudizi e contrapposizioni. Ci sono in effetti molte aziende disponibili, forse più di quello che comunemente si pensa».

Quando le aziende sono soggette agli obblighi di assunzione di un lavoratore con disabilità (Legge 68/99) attendono in genere fino all’ultimo momento utile e cercano un lavoratore “super-abile”. Forti di alcune convinzioni e pregiudizi, cercano un candidato con una disabilità “poco appariscente”, con una bassa percentuale di invalidità e soprattutto che non sia portatore di certe patologie, ritenute, a loro avviso, incompatibili con il mondo del lavoro.

Con accenti diversi, molte aziende manifestano apertamente il loro pensiero, a volte nascosto dietro una patina paternalistica o pseudo-etica («Come possono stare in azienda? Sarebbe per loro un’umiliazione. Si sentirebbero inferiori rispetto ai colleghi»…). Comprendono la gravità del problema sociale, condividono i princìpi di inclusione ma ritengono che sia compito dello Stato e dei Servizi Pubblici occuparsi della disabilità.
Un giorno, per ragioni d’ufficio, ricevetti un imprenditore metalmeccanico, il quale molto schiettamente mi disse – usando un termine dialettale che stava ad indicare una persona di poco valore – che persone del genere non sarebbero mai entrate nella sua azienda.
Nel salutarlo gli augurai che non gli accadesse nulla durante il rientro in azienda. Sorpreso, mi chiese cosa intendessi; risposi che se gli fosse accaduto un incidente, forse sarebbe ritornato da me nella stessa situazione di quelle persone che tanto aveva mostrato di disprezzare. Nonostante tutto dovette assumere un lavoratore con disabilità. Alcuni mesi dopo, pochi giorni prima di Natale, venne a farmi gli auguri e, soddisfatto, mi informò che il giovane da lui assunto non solo era un buon lavoratore, ma grazie a lui erano migliorate le relazioni fra gli operai di quel reparto.
Purtroppo le ragioni di molti si fondano su pregiudizi e stereotipi consolidati, fino a considerarli dati di fatto ineluttabili e inalienabili. Tanti imprenditori ritengono che le persone con disabilità siano quelle in carrozzina o portatrici di gravi handicap. Quando si spiega loro che la disabilità può essere certificata a causa di innumerevoli patologie non nascondono la loro sorpresa. A volte mi sono sentito dire: «Ma allora sono disabile anch’io… Non posso essere computato?».
Purtroppo il mondo della disabilità continua ad essere uno scomodo sconosciuto, troppo spesso oggetto di notizie di cronaca. A questo si aggiunge una diffusa opinione che considera il lavoratore con disabilità scarsamente produttivo, da seguire costantemente, perennemente assente per malattia, beneficiario di una notevole quantità di permessi, tutelato da Associazioni e Sindacati sempre pronti e agguerriti in sua difesa. Superficialità e preconcetti prodotti e giustificati, quasi sempre, dal sentito dire. Convinzioni cristallizzate che possono essere confutate solo con l’esperienza diretta e il sostegno di servizi credibili.

Purtroppo il sistema attuale di collocamento considera l’azienda un’alterità a cui imporre l’assunzione e delegare gli oneri di gestione. I servizi, in particolare, ritengono che sia compito esclusivo dell’azienda gestire il lavoratore con disabilità dopo l’assunzione. Qualsiasi problema: contrattuale, formativo, disciplinare e così via è un compito che spetta all’impresa. Solamente il Sindacato o le Associazioni si curano di intervenire durante il rapporto contrattuale, ma solo quando devono tutelare il lavoratore.
Le aziende e i lavoratori denunciano da sempre di non avere nessuno che li sostenga nei momenti di difficoltà, di non avere servizi a cui rivolgersi in caso di bisogno.
Un giorno ricevetti una mail da una piccola azienda che aveva gravi difficoltà di rapporto con un lavoratore con disabilità. Narrava delle continue assenze ingiustificate, della litigiosità con il resto del personale e di atteggiamenti provocatori verso l’azienda e i colleghi. Concludeva lamentandosi di non sapere a chi rivolgersi per chiedere un aiuto.
Purtroppo questa è la realtà. I servizi per il Collocamento Disabili dichiarano che non rientra nelle loro competenze, mentre i servizi pubblici e privati accreditati al lavoro, nonostante le disponibilità dichiarate prima dell’assunzione, sono quasi sempre latitanti o, se interpellati, dichiarano di non sapere cosa consigliare. Atteggiamenti che allontanano la disponibilità delle aziende.

La gestione delle persone con disabilità non è sempre facile; lo sanno le famiglie e chi se ne occupa professionalmente. Spesso, però, si riscontra da parte dei servizi un atteggiamento ideologico pregiudizievole, per cui la persona con disabilità viene difesa a prescindere, in quanto “soggetto debole”. Sarebbe invece più opportuna una corretta e oggettiva mediazione e un sostegno all’azienda, al fine di favorire il mantenimento del posto di lavoro ed evitare una dannosa e inutile conflittualità.

A tutto ciò si aggiunge il pregiudizio del “disabile assenteista” che aleggia nel mondo delle imprese, in modo del tutto ingiustificato. Non c’è infatti un dato statistico che possa confermare questa tesi, dimostrando che i lavoratori con disabilità siano più assenteisti degli altri. Anzi l’esperienza mi porta alla mente una lunga schiera di persone che lavorano con dedizione e a volte oltre le loro stesse possibilità. L’assenteismo è un comportamento che si manifesta in tutti i settori, pubblici e privati, e le ragioni che lo sottendono sono altre, certamente non riconducibili all’invalidità e alle persone con disabilità.

In conseguenza di tutto ciò le aziende provvedono autonomamente, spesso demandando a un soggetto “accreditato al lavoro” il compito di ricercare: un “disabile-abile”, con una bassa percentuale di invalidità (in quanto ritenuta, erroneamente, inversamente proporzionale alla produttività), non affetto da certe patologie (ritenute particolarmente problematiche per essere inserite in azienda), in possesso di professionalità e competenze difficilmente reperibili anche nel mercato del lavoro ordinario.

Tutto questo evidenzia quanto sia ancora lontana una diffusa cultura inclusiva da parte del mondo del lavoro. Ma questo non è imputabile unicamente alle aziende. Bisogna infatti che i servizi per il Collocamento Disabili comprendano che l’informazione, la formazione e il coinvolgimento sono prioritari rispetto agli obblighi di legge. Solamente dopo avere coinvolto le aziende e offerto servizi adeguati, potremo discriminare fra imprenditori “buoni” e “attivi”, fra imprese accoglienti e no. Bisogna che chi opera a favore dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità eviti di rivolgersi alle aziende con le loro stesse rigidità e pregiudizi e contrapposizioni. Ci sono in effetti molte aziende disponibili, forse più di quello che comunemente si pensa.

Spetta quindi a chi si occupa di disabilità sviluppare una cultura inclusiva. Purtroppo il confronto avviene solo fra addetti ai lavori e l’incontro con le aziende è sostanziato da argomentazioni e linguaggi per loro incomprensibili, che spesso rafforzano pregiudizi e paure. Si fanno troppi dibattiti pubblici, disquisizioni fra tecnici, formazioni teoriche ecc. Si cerca così, inutilmente, di far comprendere alle imprese, quasi sempre assenti, che l’inserimento della persona con disabilità è spesso un valore aggiunto, che l’assunzione del disabile è un valore etico e sociale a cui non si devono sottrarre. Affermazioni di principio, che purtroppo non producono alcun risultato. Agli incontri pubblici, infatti, devono seguire incontri privati con le singole imprese. Bisogna essere credibili, convincenti e coerenti nel supportarle. Solo così avremo la possibilità di sviluppare una cultura inclusiva e sfoltire gli elenchi e le graduatorie giacenti presso i servizi provinciali per il Collocamento Disabili.

Una risposta concreta in tal senso viene ad esempio da una “buona prassi” finanziata dalla Regione Lombardia e dalla Provincia di Monza Brianza, e promossa da soggetti appartenenti al mondo dell’associazionismo, della cooperazione sociale, delle agenzie private di formazione e somministrazione.
Attraverso lo specifico progetto Road, gli Enti Promotori – tramite la Provincia di Monza e Brianza – hanno deciso di implementare un servizio in grado di rispondere efficacemente a qualsiasi richiesta, proveniente dalle aziende, relativa al rapporto disabilità/lavoro. Ed è un servizio che sta attivando una rete diffusa su tutto il territorio lombardo. Quando sarà operativo, esso si caratterizzerà come un riferimento costante, soprattutto per: promuovere la conoscenza delle norme nazionali e regionali; valutare le modalità di assolvimento degli obblighi; garantire il necessario raccordo con i servizi per il collocamento mirato e i servizi territoriali; formare il tutor aziendale come figura professionale in grado di supportare il lavoratore con disabilità nella fase di inserimento e mantenimento del posto di lavoro; elaborare un progetto personalizzato, di inserimento e mantenimento al lavoro, coerente alla disabilità, alle capacità e potenzialità lavorative e alle aspirazioni personali e professionali; favorire la correlazione degli interventi di supporto all’inserimento lavorativo con l’erogazione di altri servizi (trasporto, assistenza ecc.); monitorare il processo di inclusione lavorativa e attivare eventuali strumenti correttivi e prassi assistive; programmare l’eventuale formazione e/o riqualificazione e/o accomodamenti ragionevoli ecc.; rielaborare il progetto lavorativo personalizzato, in base all’evoluzione dello stato di salute, ricorrendo a istituti contrattuali, quali il job call [“contratto a chiamata o intermittente”, N.d.R.], il telelavoro, l’orario flessibile e ogni altra misura idonea a favorire la conciliazione delle esigenze personali con quelle di lavoro; sviluppare la cultura del disability management*, promuovendo pacchetti formativi e organizzativi rapportati alla dimensione e organizzazione dell’ azienda.
Questo è effettivamente un modo nuovo per rapportarsi alle aziende, per rispettare lo spirito della legge, fondato sul principio dell’inserimento mirato e non dell’obbligo, e per realizzare politiche attive più efficaci per le persone con disabilità.
Per disability management si intende sostanzialmente un modo per conciliare il diritto all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità e dei malati cronici con le esigenze di efficienza delle imprese.

di Marino Bottà,
Già responsabile del Collocamento Disabili e Fasce Deboli della Provincia di Lecco (marino.botta@alice.it).

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