lunedì 10 settembre 2018

Yetnebersh Nigussie, l'attivista etiope che insegna l'inclusione. E vince il Nobel "alternativo"

Redattore Sociale del 08-09-2018

Quando perse la vista, nel villaggio si diede la colpa a uno spirito maligno. Ma fu la cecità a spalancarle il mondo: sfumato il progetto di matrimonio precoce, frequentò la scuola e l'università. Da allora si batte per le persone disabili, ricevendo premi per il suo impegno. 
ROMA. Aveva cinque anni, Yetnebersh Nigussie, quando il suo mondo divenne buio. Oggi ne ha 36, i suoi occhi continuano a non vedere ma lei ha imparato a superare gli ostacoli che incontra sul percorso. E insegna a tanti come lei a fare lo stesso, stando al loro fianco nella difesa dei diritti e delle opportunità di chi ha una disabilità. Specialmente in quella parte di mondo da cui lei stessa proviene, in cui tutto ciò è più complicato. Oggi la voce di Yetnebersh, dall’Etiopia in cui è nata e cresciuta, è arrivata in tutto il mondo. Laureata in giurisprudenza e con un master in assistenza sociale, ha presieduto comitati e associazioni per la difesa dei diritti umani: delle donne in particolare, sottoposte in molte culture a matrimoni combinati e precoci, e delle persone con disabilità, che in tante parti del mondo vivono in uno stato di emarginazione e discriminazione. Dal 2016 è impegnata con l’organizzazione non governativa Light for the world (Luce per il mondo); lo scorso anno, a settembre, ha ricevuto dinanzi al Parlamento svedese il Right Livelihood Award, considerato il Premio Nobel alternativo per una società più giusta, grazie al “suo lavoro per la promozione dei diritti e l’inclusione delle persone con disabilità”. L'ha intervistata, per il numero di luglio della rivista SuperAbile Inail, Chiara Ludovisi di Redattore sociale.

Yetnebersh, cosa ricorda della sua infanzia?
Sono cresciuta in un villaggio rurale: a tre anni, insieme ai bambini più grandi, svolgevo faccende domestiche, mi occupavo del bestiame, raccoglievo legna da ardere e andavo a prendere l’acqua nel fiume, che distava da casa circa 25 minuti a piedi. 

Qual è la sua vita oggi?
È molto diversa da quella di allora: ho una laurea in giurisprudenza e un master in servizi sociali, sono sposata, ho due belle figlie, Ahati e Zema, e sono in attesa del mio terzo figlio, che nascerà tra un paio di mesi. Lavoro come consulente per la disabilità all’interno di Light for the world, un’organizzazione non governativa che si occupa di sviluppo e disabilità. 

Quando e come ha perso la vista?
Ho perso la vista per una causa prevenibile quando avevo cinque anni. Si attribuì la mia cecità a uno spirito malvagio: non c’erano strutture mediche nelle vicinanze, così trascorsero tre anni prima che fossi visitata da un medico. 

Come cambiarono le cose dal quel momento?
Completamente: non mi fu più permesso di passare del tempo fuori, dovevo restare a casa, completamente dipendente dagli altri, senza più poter badare agli animali di cui mi ero sempre presa cura. La mia famiglia dovette rinunciare al progetto di darmi presto in sposa: nessun uomo avrebbe voluto una ragazza cieca. Allora mia madre e mia nonna decisero di portarmi ad Addis Abeba, dove potessi ricevere cure mediche e frequentare la scuola. Così fui l’unica ragazza del nostro villaggio ad avere un’istruzione. Allora, dopo aver frequentato la scuola primaria per ciechi, iniziò la mia lunga battaglia per l’inclusione nella scuola pubblica tradizionale. Frequentai il Menelik II Senior Secondary School, una scuola inclusiva. Andare d’accordo con i compagni vedenti non è stato facile: non erano mai entrati in contatto con un bambino cieco. Ci hanno messo del tempo per accettarmi come compagna di classe e giocare con me. 

Poi arrivò l’Università: come fu possibile?
A causa del ridotto numero di università nel paese, la competizione per entrare è stata molto dura. Solo il 3-5% di coloro che avevano superato gli esami di maturità fu ammesso. E io ero tra questi. Sono stata continuamente sostenuta dalle suore cattoliche per ottenere materiale in Braille e altri ausili. Ma fu fondamentale anche il ruolo dei miei compagni e degli insegnanti. 

Come è nato il suo impegno in difesa dei diritti umani?
Quando ho iniziato a frequentare la settima classe, ho capito che le cose dovevano cambiare. Vedevo gli studenti ciechi sostenere gli esami in corridoi rumorosi e polverosi, esposti a sole e pioggia. Mi battei allora, fino a ottenere una stanza in cui potessero dare gli esami. È così: il mio percorso verso l’advocacy è stato fortemente influenzato dalla mia esperienza personale di esclusione e discriminazione.

Che risultati ha ottenuto finora?
Credo di aver raggiunto una serie di obiettivi: il primo è quello di aver posto la disabilità al centro del dibattito sullo sviluppo nel mio Paese. In particolare, ho guidato il processo di creazione del Centro etiopico per la disabilità e lo sviluppo, che insegna i temi dell’inclusione ai cosiddetti attori dello sviluppo. All’università, poi, ho svolto un ruolo fondamentale nella creazione di un centro per studenti disabili. Anche al liceo ero riuscita a creare dei comitati per accelerare il processo di inclusione. 

Nel 2017 ha ricevuto il Right Livelihood Award, quest’anno a New York il premio Spirit of Hellen Keller: cosa significano per lei questi riconoscimenti internazionali?
Significano molto: Right Livelihood Award non è un’organizzazione specifica per le disabilità, quindi con questo premio abbiamo conquistato un altro importante alleato, elevando la causa della disabilità al rango di questione di diritti umani. 

I suoi prossimi obiettivi e progetti?
Nella vita ho imparato che la scuola è il luogo naturale per far crescere generazioni inclusive: ragazzi in diverse condizioni, che giocano e apprendono insieme, non avranno difficoltà a lavorare insieme, a costruire relazioni e perfino a sposarsi tra loro. Per questo, voglio dedicare la mia vita alla costruzione di un sistema educativo di qualità e inclusivo per tutti. Attraverso l’istruzione, da ragazza dimenticata in casa sono diventata una riconosciuta figura di spicco. Voglio che questa fantastica opportunità sia offerta a tutti, indipendentemente dal colore della pelle, dalla disabilità o da qualsiasi altra condizione.

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