lunedì 25 novembre 2019

"Il judo è la mia luce, mi aiuta ogni giorno. E la cintura nera un'immensa emozione"

La Nuova Venezia del 25.11.2019

Padovano di nascita, mestrino di adozione. Roberto Lachin ha 40 anni, nove dei quali trascorsi in un "dojo". Eppure lui è cieco fin da ragazzino: affetto da una malattia che si chiama retinite pigmentosa che gli ha progressivamente "divorato" la vista. Lachin si avvicina al judo nel 2012, mentre nel 2014 inizia ad allenarsi con il Judo Mestre 2001, sotto la guida del maestro Michele Pasini. Di recente si è piazzato per la seconda volta al secondo posto ai campionati italiani assoluti di judo per non vedenti e ipovedenti. Nel suo palmares anche quattro medaglie d'oro ad altrettanti Grand Prix.

Roberto Lachin, 40 anni, medaglia d'argento agli Italiani per non vedenti, racconta una storia di sofferenza vinta con forza, passione e ironia. L'intervista.

VENEZIA. Del mondo intorno a sé, Roberto Lachin da 30 anni intravede le luci. La vista gli è stata sottratta da una malattia genetica, la retinite pigmentosa, che inesorabilmente lo ha risucchiato in un tunnel oscuro. Gli ha tolto la vista, ma non la voglia di sviluppare le passioni. Una su tutte, il judo: arrivato per caso, nell'ottobre di sette anni fa, e che ora è parte integrante delle sue giornate.

Quando è insorta questa malattia?
«Tra i 9 e i 10 anni, sbattevo contro gli oggetti. Una serie infinita di esami, e mi hanno diagnosticato la retinite pigmentosa, che stava "lavorando" con il restringimento progressivo del campo visivo. Ne è affetta anche mia sorella, che ha quattro anni in meno di me e ha iniziato ora a perdere la vista. Non vedo nulla: capisco se c'è della luce, per un piccolo foro che mi è rimasto al centro dell'occhio».

Come ha affrontato malattia e conseguenze?
«Già alle elementari il mio mondo era piuttosto ristretto: non potevo praticare sport, andare in bici, uscire con gli amici. Alle medie i miei compagni andavano in moto, all'Università in macchina. E io no. Ero sempre tagliato fuori da tutti i gruppi. Quando ancora vedevo, con fatica, passavo le giornate con il naso sui fumetti o guardando cartoni giapponesi. Avrei voluto fare sport, ma ogni associazione a cui mi proponevo mi rifiutava, gli istruttori non se la sentivano di allenare uno "come me". E io ci rimanevo malissimo».

Poi è arrivato il judo...
«Per caso. Era l'autunno del 2012. Ero al palazzetto dello sport di Mestre per assistere a una prova di karate di mio figlio Alessandro. Faceva caldo, c'era tanta gente e mi sono fatto portare dal mio precedente cane guida, Penny, all'esterno, per prendere una boccata d'aria. Lei si è confusa e mi ha portato in un dojo. Ero molto imbarazzato, mi sono scusato. Ma il maestro di judo mi ha convinto a provare ad allenarmi. Il giorno dopo ero lì, con la tuta da ginnastica. Dopo due anni sono passato al Judo Mestre 2001: prima tra gli amatori, poi tra gli agonisti».

Com'è stato il primo approccio con i compagni?
«Volevo farmi accettare subito, temevo un po’ di freddezza, la gente non sa come comportarsi. Allora ho iniziato con le battute, tipo "Non ci vedo più dalla fame", "Botte da orbi" e la tensione si è sciolta immediatamente. In questi anni ho conosciuto persone splendide, dai miei maestri attuali - Michele Pasini e Manuela Tadini - ad Adriano Pizzolon di Montebelluna, fino al maestro Komuro Koji di Tokyo. Sono persino andato ad allenarmi nella sua palestra, in Giappone. Sono stato lì con mia moglie, che è giapponese».

Lei è appassionato anche del Giappone...
«Mi sono laureato a Ca’ Foscari in Lingue e civiltà orientali. Ora lavoro come centralinista al Casinò di Venezia. Mi sarei voluto iscrivere a Chimica industriale, ma quell'anno il corso non era stato attivato per i pochi iscritti. Per fortuna, perché al secondo anno di Università, in una scuola di italiano per stranieri, ho conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie, Izumi. Ci siamo sposati l'anno successivo e la mia vita è cambiata. Abbiamo un figlio, Alessandro, di 12 anni, campione italiano Under 14 di calcolo mentale».

Lei invece è vicecampione di judo per non vedenti e ipovedenti...
«Ho compiuto 40 anni proprio a Napoli, dove ho centrato per il secondo anno consecutivo l'argento. Dal 2017 ho vinto l'oro in tre Grand Prix. Il judo mi ha regalato tanto: sicurezza, equilibrio e 25 kg in meno in due anni».

E ora è cintura nera...
«Una bellissima sorpresa organizzata dai miei maestri, Michele Pasini e Manuela Tadini, domenica scorsa. Ho fatto un'esibizione dimostrativa in occasione della qualificazione esordienti a Treviso. Sono stato chiamato sul palco, pensavo per premiare qualche giovane. E invece ho sentito al microfono che mi veniva conferita la cintura nera. C'erano anche mia moglie, mio figlio, i miei genitori. Mi sono emozionato. La gente non smetteva di applaudire, Manuela è scoppiata a piangere. Tutto perfetto...».

Come riesce a praticare il judo, da non vedente?
«In gara, noi non vedenti partiamo con le "prese": mano destra sul bavero, sinistra sulla manica. Così posso anticipare i movimenti dell'avversario. Nel judo, prese e proiezioni sono molte, ma tutte codificate: per questo riesco a prevedere cosa succederà. Se il mio avversario "strappa" in un modo, probabilmente cercherà di fare un certo tipo di attacco. E poi ascolto i rumori, percepisco, ho affinato una grande sensibilità. Nelle gare, inoltre, noi non vedenti godiamo di alcune "agevolazioni".
Per distinguerci, gareggiamo con due ciondoli rossi attaccati alle maniche. E non veniamo sanzionati se usciamo dal tatami: non ce ne accorgiamo».

Quanto si allena?
«Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, un paio d'ore. E cyclette nel weekend, a casa. Da due anni, negli allenamenti al mio fianco c'è Marco Salvini: la mia ombra. Ha 15 anni ed è bravissimo, mi aiuta molto».

La sua ombra è anche Atena, il suo cane guida...
«Un labrador nero di 6 anni. Mi accompagna ovunque. Quando ho iniziato a fare judo e vedeva che i miei compagni mi buttavano per terra, subito correva in mio soccorso sul tatami. Ho dovuto farle capire che era normale. Ora mi accompagna in palestra, mi aspetta seduta durante tutto l'allenamento e, alla fine, quando facciamo il saluto, si rialza, capisce che è il suo momento. Per me è come una figlia. Sale in aereo con me quando vado in Giappone. Le rare volte in cui la lascio a casa, lei comunque mi aspetta dietro la porta: non si schioda da lì».

di Laura Berlinghieri

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