La Nuova Ecologia del 02.11.2019
Da Santhià al Sacro Monte di Oropa: un cammino di 62 km, da percorrere in 4 tappe, pensato per non vedenti e per gli amanti del trekking.
ORONA. Immaginate di camminare per chilometri fra campi di grano senza vedere e di percorrere formazioni di origine glaciale fra le più antiche d’Europa. Immaginate ora di esplorare bendati una foresta con un gruppo di persone, di guadare gelidi ruscelli e risalire, in fila indiana, alpeggi assolati fino a 1.200 metri di altezza, aiutandovi soltanto con bastoncini da trekking o poggiando la mano sullo zaino del compagno che vi precede. Prima di provare il Cammino di Oropa, l’ultimo dei percorsi “accessibili” inaugurato nel cuore del Piemonte, pensavo fosse impossibile. Dopo averlo percorso per quattro giorni con un gruppo di dodici camminatori vedenti, ciechi e ipovedenti, tutti appassionati d’avventura, ho scoperto che non è soltanto un’occasione per superare i propri limiti. Può trasformarsi in un laboratorio sensoriale, dove imparare a percepire lo spazio “con occhi diversi”.
Progettato nel 2012 dalla Casa del movimento lento, onlus che si occupa di valorizzare la cultura del cammino nel biellese, il Cammino di Oropa è un itinerario di 62 km in quattro tappe di difficoltà crescente. Dalla pianura vercellese di Santhià raggiunge il santuario dedicato alla Madonna nera di Oropa, il luogo di culto mariano più importante dei nove Sacri Monti dell’arco alpino, dichiarati nel 2003 patrimonio dell’umanità dall’Unesco. «Un percorso semplice e blind friendly, adatto a principianti che desiderano prepararsi alla Via Francigena o al Cammino di Santiago, segnalato (con adesivi e segnavia gialli e neri, nda) per essere fruibile anche dagli ipovedenti», spiega Alberto Conte, fondatore della Casa del movimento lento, che ha progettato il tracciato nel 2012 in collaborazione con l’associazione Amici della Francigena e del Santuario di Oropa. «Abbiamo ridotto al minimo guadi, fondi dissestati, gradini e strade trafficate, proponendo all’occorrenza delle varianti».
Non è la meta finale la parte emozionante del viaggio, ma la traversata. Ed è quando gli occhi si chiudono che l’esperienza acquista il suo significato più intimo e profondo. Un universo carico di percezioni si dischiude. Il paesaggio diventa suono, profumi, sensazioni, restituendo un’immagine dei luoghi attraversati inconsueta. Succede durante i workshop, quando vedenti e non vedenti scambiano ruoli e impressioni. «Lo spirito del viaggio è quello della condivisione – anticipa Giulia presso la sede dell’associazione Amici della Via Francigena di Santhià, da dove il cammino prende il via con la con- segna del passaporto del pellegrino – Non ci sono accompagnatori, ma compagni di viaggio». È con lei che affronto la prima tappa (Santhìà-Roppolo), che ricalca l’ottava della Via Francigena. Ventiquattro anni, valdostana, fa la guida sensoriale in Veneto, dove illustra in barca la “Venezia che non si vede”. Guardarla camminare riempie di stupore, tanta è la disinvoltura con cui si muove in autonomia. «Nella natura mi sento libera – racconta – Cammino in silenzio. Predispone all’introspezione».
Il paesaggio, a tratti monotono della pianura, a occhi chiusi è un’esplosione di odori contrastanti. «Il profumo inebriante del glicine e l’odore pungente del trinciato, vicino le cascine, investono i sensi», fa notare Josè, programmatore ipovedente di Milano. Un percorso collinare porta a Roppolo, con il suo castello millenario, dal quale la vista sul lago di Viverone è eccezionale. Durante la seconda tappa (Roppolo-Magnano) ci addentriamo nell’anfiteatro morenico di Ivrea, che sembra ergersi sulla pianura padana come una muraglia lunga oltre 25 km. L’incontro con due castagni millenari diventa un’esperienza tattile avvincente. Un sentiero costeggia file di vigneti e conduce a un belvedere panoramico. In lontananza, le Alpi canavesane svettano imponenti. Come descrivere la vista a chi non vede? «Il concetto di colpo d’occhio può essere ricostruito dal particolare e dalle proprie percezioni – spiega Giulia – Il rumore di un camion indica una strada. Il sole che scalda il volto e la voce che si disperde un’apertura sulla natura. La visione analitica mette in relazione più elementi dell’ambiente, le informazioni fornite da chi vede completano lo scenario». A Giulia le descrizioni piacciono, ma non comprende aggettivi come rosso o marrone perché è cieca dalla nascita.
Nel caso di Florinda, invece, che ha perso la vi- sta a 18 anni per una malattia degenerativa, sono i dettagli a distrarla dalle sensazioni. I colori, però, li ricorda bene, «soprattutto il giallo e l’arancione», quelli del foliage, che in autunno accende i boschi biellesi in un tripudio di sfumature. Atleta azzurra di canottaggio alle Paraolimpiadi di Londra e Rio (2012 e 2016), Florinda mi guida nella prova più importante del nostro viaggio: camminare bendati nella Serra Morena. Un vasto polmone verde, attraversato da sentieri interrotti da enormi massi erratici, trasportati durante l’Era Quaternaria dal pulsare dei ghiacciai. Quando l’orizzonte svanisce dietro la benda, il braccio della mia compagna diventa l’unico appiglio possibile di fronte l’imperscrutabile. A poco a poco, la reticenza lascia il posto alla fiducia. È il bastone a valutare gli ostacoli, soprattutto all’altezza del ginocchio. Le foglie secche calpestate, invece, indicano il margine del tracciato. Come in una danza, aggiriamo pietre e ostacoli, mentre la foresta intorno vibra al canto degli uccellini. Incredibile la capacità del nostro corpo di adattarsi alle circostanze. “A occhi chiusi si comprende la quotidianità di chi non vede” commenta Giovanna, 53 anni, operatrice in un call center e reduce dal cammino di Santiago. Ha visto fino all’età di 13 anni. Dopo il glaucoma è calata la nebbia, oltre la quale, da un occhio, scorge ancora un po’ di luce. «Un vedente guarda dove cammina – continua – non saggia il terreno come faccio io ogni giorno». Giovanna “vede con i piedi”, usa il tatto indiretto per muoversi. Giulia, invece, si orienta con le “orecchie”. «Se ascolto, ho la sensazione di collocare le persone nello spazio».
Per i neofiti, la terza tappa (Magnano-Santuario di Graglia) può rivelarsi la più difficile, ma è ricca di suggestioni. Lasciata la morena, si delinea la montagna. Nella valle dell’Elvo è l’acqua la protagonista del percorso. Da Donato in poi, è un susseguirsi di torrenti e cascate che riecheggiano fra la vegetazione, di guadi da attraversare a piedi nudi e di impluvi, che precipitano a valle con effetti scenografici. La discesa dal monte Truc Granagge, con i suoi 800 metri di dislivello, è faticosa. L’arrivo al Santuario di Graglia è una benedizione e la tipica polenta concia, del ristorante del santuario, è un trionfo per il palato. Nel corso dell’ultima tappa (Santuario di Graglia-Santuario di Oropa), le edicole votive con l’effige della Gran Madre si ripetono a ogni bivio. A Sordevolo una ripida mulattiera scende fino al torrente Elvo, che scorre impetuoso fra gole spettacolari. Risaliamo i pendii erbosi, mentre i campanacci delle pecore al pascolo ci accompagnano. Da Favaro proseguiamo sulle Alpi biellesi, lungo il sedime della vecchia tranvia Biella-Oropa, “l’Ardita d’Italia”, scandita da ponti ferroviari che si stagliano fra la faggeta. Il penultimo chilometro corre lungo la via del Santuario (SS144), per poi immettersi sullo sterrato fino al complesso monumentale di Oropa. Una perla architettonica incastonata in un magnifico scenario alpino, edificato sui resti di un antico tempio pagano, oggetto per secoli di ininterrotti pellegrinaggi.
«Un cammino consigliato agli amanti della natura, soprattutto ai ragazzi ciechi, perché dal punto di vista proprioccettivo (la capacità di percepire il proprio corpo nello spazio, nda) può insegnare a gestire l’imprevisto, anche in città», commenta Francesco, presidente del gruppo sportivo dilettantistico non vedenti Milano onlus. «Quello biellese è un territorio vario e godibile, che offre tanto dal punto di vista sensoriale», dice Angela, 52 anni, impiegata del quotidiano Il Giorno in pensione. «Il tratto che più mi ha colpito? – conclude Giovanna – Il sentiero di domani».
di Loredana Menghi
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