Artribune.com del 21.04.2019
Come raccontare una scultura o un dipinto, anche astratti, a coloro che non possono vederli con gli occhi ma possono ricostruirli nella mente con l’aiuto di immaginazione, udito e tatto? È nato così “Doppio senso. Percorsi tattili alla Collezione Peggy Guggenheim”, il progetto ideato e curato da Valeria Bottalico, esperta di accessibilità museale, al fine di attivare un processo di sensibilizzazione alla conoscenza dell’arte moderna e contemporanea per tutti.
Nel gioiello di museo che è la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia è attivo da alcuni anni un tuo progetto, altrettanto prezioso, Doppio Senso? Com’è nato?
“Educare l’uomo vuol dire dargli il senso della ‘prospettiva’, il senso, cioè, della gioia per le vie di domani”. Così scriveva il pedagogista Anton S. Makarenko agli inizi del secolo scorso. Credo che la parola chiave del fare progettuale in ambito culturale debba essere l’accessibilità.
Questa rappresenta il diritto di ogni cittadino di fruire del patrimonio culturale e riguarda tutto il museo: ogni attore, dall’assistente di sala all’educatore fino al direttore, concorre a far sì che l’accesso al patrimonio, di cui è custode, sia garantito a tutti, eliminando ogni tipo di barriera. E dunque sono stati diversi, nel corso degli anni, gli interrogativi che mi sono posta e le ricerche su base nazionale e internazionale: quali azioni compiere per rendere accessibile il patrimonio culturale a un pubblico di persone non vedenti e ipovedenti?
Come si svolge un incontro?
Può sembrare una provocazione, ma l’atto del vedere si completa con l’uso di entrambi i sensi, tatto e vista insieme. Per questa ragione, l’esperienza in museo, a cadenza mensile, è suddivisa in due momenti: una guida all’esplorazione tattile individuale, da me condotta, e un laboratorio esperienziale con l’argilla realizzato da Felice Tagliaferri, scultore non vedente molto attivo in ambito artistico. È un dialogo a due voci sull’opera d’arte da punti di vista differenti. Il programma ha registrato la partecipazione di più di 300 presenze tra i non vedenti provenienti da ogni parte d’Italia, e più del doppio di visitatori vedenti. In questi anni, a seguito della valutazione sullo stato di conservazione delle opere, sono state fruite tattilmente in originale diverse sculture in bronzo, di Alberto Giacometti, Max Ernst, Jean Arp e di artisti delle Avanguardie storiche. Inoltre, è possibile esplorare anche alcuni dipinti rappresentativi dell’arte del XX secolo grazie alle riproduzioni in rilievo in resina, realizzate in collaborazione con il Centro del Materiale Didattico dell’Istituto dei Ciechi di Milano: opere di Picasso, Klee, Kandinsky, Modigliani e molti altri.
È stato facile convincere i curatori e soprattutto i conservatori? C’è stato qualche episodio particolarmente significativo che ha aperto le porte alla cultura dell’accessibilità per tutti?
Già negli intenti della mecenate americana vi era l’idea di rendere fruibile al maggior numero di persone il proprio patrimonio, con le aperture straordinarie di Palazzo Venier dei Leoni quando lei era in vita. Quest’anno, infatti, ricorrono, non solo i quarant’anni dalla sua scomparsa (23 dicembre 1979), ma anche i settant’anni dal trasferimento nel 1949 della collezionista nella residenza veneziana. Oggi è questa la mission che si pone la Collezione Peggy Guggenheim: garantire la piena accessibilità dei suoi spazi e offrire al pubblico una pletora di attività gratuite e ogni progetto inclusivo trova o può trovare terreno fertile. C’è una data, però, un incontro, per me molto significativo e che segna l’inizio di Doppio senso: è il 24 settembre 2014.
Che cosa successe in quella giornata?
Quel giorno, Gondon Gund, visitatore americano non vedente, chiese di poter esplorare tattilmente alcune delle sculture presenti all’interno del museo e in quell’occasione io ebbi modo di poterlo guidare nell’esplorazione e condividere alcune idee. Dopo una settimana dal nostro incontro, il signor Gund, presidente di “The Gordon and Llura Gund Foundation”, scrisse una bellissima mail nella quale comunicava la sua decisione di fare una donazione alla Collezione Peggy Guggenheim per attivare un percorso tattile destinato ai non vedenti. A seguito di un momento formativo destinato a tutto lo staff del museo, l’entusiasmo, la curiosità di conoscere l’arte del Novecento e il passaparola tra i visitatori non vedenti hanno fatto poi il resto.
Partner indispensabile del progetto è il già citato scultore non vedente Felice Tagliaferri. Com’è nata la vostra collaborazione e quali sono i rispettivi ruoli?
Ho conosciuto Felice nel 2014. Eravamo a Padova e io avevo da poco assistito a un suo laboratorio di scultura. Mi sembrava la persona più indicata per il progetto che avevo in mente e così gliene prospettai le linee guida e lui aderì senza esitazione. L’esplorazione tattile presuppone due funzioni intellettive importanti: astrazione e memoria. La memoria tattile è diversa da quella visiva: con la vista colgo e ricordo l’insieme; con il tatto colgo e ricordo il particolare. I tempi di conoscenza sono molto diversi. Le mani vanno guidate per comporre l’opera nella mente di chi non vede per step, si deve passare dal tocco guidato al tocco intenzionale. Da una prima esplorazione rapida e sommaria per comprendere la forma generale si passa a una successiva più dettagliata per sommatoria di elementi. Ma quanto l’opera è stata realmente vista con ‘l’occhio della mente’, per usare le parole di Oliver Sacks? Il lavoro di Felice, invece, consiste nel verificare con me l’avvenuta creazione dell’immagine mentale attraverso l’attività laboratoriale di modellazione con l’argilla e di confronto con i visitatori. Devo dire che lavoriamo bene in questa visione doppia e lui, oltre a essere un grande motivatore, possiede le competenze artistiche e pedagogiche necessarie. Proprio in questo periodo, tra l’altro, stiamo strutturando un nuovo programma dedicato alla scultura… Per ora non posso dire di più.
A quasi quattro anni dagli esordi, quali sono le considerazioni da fare?
Il progetto si è strutturato in modo permanente all’interno del museo, grazie anche a nuovi sostenitori, in primis la Fondazione Araldi Guinetti Vaduz e la Kirsh Foundation. L’obiettivo nel prossimo periodo è avviare un servizio per tutti i visitatori: nei mesi scorsi sono stati organizzati dei momenti formativi per gli insegnanti e al momento sto lavorando alla creazione di un catalogo con testi descrittivi e a nuove attività. Presto alcune opere saranno esposte con le riproduzioni in rilievo corrispondenti.
Se Peggy fosse viva cosa credi penserebbe di questo progetto? Io ritengo che ne sarebbe entusiasta…
“La signora Guggenheim spera che Art of this Century diventi un centro dove gli artisti sono benvenuti e dove essi possano collaborare nel creare un laboratorio per nuove idee”. Questa citazione appare in un comunicato stampa approntato in occasione dell’apertura della galleria newyorkese Art of this Century il 20 ottobre 1942. Avanguardia e innovazione sono del resto ciò che caratterizza ancora oggi le molteplici attività che la Collezione propone. Mi auguro e mi piace pensare che Doppio senso rientri nel ‘laboratorio per nuove idee’ a cui ambiva Peggy.
Progetti futuri e o collaborazioni?
Il personale ha progettato e coordinato attività educative con attenzione ai temi dell’accessibilità e dell’arte partecipata. Tra le collaborazioni in corso, oltre quella con il museo veneziano, ci sono l’Accademia Carrara di Bergamo, i Musei Civici di Bassano del Grappa, il Civico Museo Archeologico di Milano grazie alla società di servizi Aster. Importante è stato per me il confronto umano e professionale con i rappresentanti dell’Istituto dei Ciechi di Milano in diverse occasioni lavorative. Tra le future progettazioni, in corso di definizione, ci sono attività inerenti nuovi spazi riguardanti il contemporaneo e l’ambito etno-antropologico. L’accessibilità, o meglio la fruibilità, non è data per sempre ma si evolve con l’esperienza diretta dei visitatori: non va delegata agli strumenti, in genere tattili o tecnologici, ma si compie con la sinergia di tutti, in primis grazie a una visione capace di innescare processi di conoscenza e di partecipazione. Non esistono soluzioni definitive, esistono “buone pratiche”.
di Annalisa Trasatti
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