Corriere della Sera del 27/10/2021
L’intervento coordinato dal direttore dell’Oculistica del Policlinico Gemelli, Stanislao Rizzo, tra i pionieri negli impianti di retina artificiale. La tecnica per ora è indicata solo nei casi gravi di retinite pigmentosa.
ROMA. La retinite pigmentosa è una malattia terribile, di origine genetica: la retina di entrambi gli occhi si degenera lentamente e progressivamente, riducendo la propria capacità di trasmettere le informazioni visive al cervello. Nei casi più gravi si arriva alla cecità. Uno dei più grandi sogni della scienza è ridare la vista a chi l’ha persa e a Roma, al Policlinico Universitario Agostino Gemelli, è stato fatto un passo avanti in questa direzione. A un 70enne non vedente, con una grave forma di retinite pigmentosa, è stata impiantata una retina artificiale di ultima generazione, dotata di oltre 400 elettrodi e grande come la punta di una matita. L’intervento, coordinato da Stanislao Rizzo, direttore dell’Unità di Oculistica al Gemelli e professore ordinario di Clinica Oculistica all’Università Cattolica campus di Roma, è durato due ore. Al risveglio il paziente era in grado di percepire la luce. Un intervento simile era stato realizzato nel 2018 all’Ospedale San Raffaele di Milano.
Studio su venti pazienti in Europa
La retina artificiale (NR600) è prodotta dall’azienda israeliana Nano Retina. Quello eseguito al Gemelli è il sesto impianto (il primo in Italia) nell’uomo del device. In Europa è in corso uno studio clinico multicentrico, che coinvolgerà una ventina di pazienti, mirato a ottenere l’approvazione CE per la protesi high-tech, frutto di ricerche durate oltre 10 anni. L’impianto, 5 mm di diametro e 1 mm di spessore, viene posizionato sopra la superficie della retina e gli elettrodi tridimensionali dei quali è composto vanno a prendere il posto dei fotorecettori (le cellule specializzate che permettono di vedere), attivando con i loro impulsi le cellule ganglionari, che trasmettono l’informazione al cervello. Il paziente deve indossare degli speciali occhiali che alimentano il device con un raggio infrarosso. Il software e l’hardware contenuto negli occhiali controllano e modulano (come in un alfabeto Morse) gli stimoli luminosi che arrivano agli elettrodi, traducendoli in impulsi elettrici che poi veicoleranno l’informazione al cervello.
Forme gravi di retinite pigmentosa
«Nell’ultima fase della retinite pigmentosa, i fotorecettori (coni e bastoncelli) sono completamente distrutti; ma alcune cellule, come quelle ganglionari della retina, sopravvivono — spiega il professor Rizzo —. Sono cellule importanti perché trasmettono le informazioni dai fotorecettori al cervello. Gli elettrodi 3D sostituiscono i fotorecettori, le cellule specializzate che costituiscono la prima parte delle vie ottiche e trasmettono l’informazione alle cellule ganglionari». Stanislao Rizzo è stato un pioniere negli impianti di retina artificiale: nel 2011 ha utilizzato la protesi retinica Argus in un paziente non vedente. «Questa nuova retina artificiale dovrebbe assicurarci risultati migliori rispetto alle precedenti, essendo dotata di più di 400 elettrodi, molti più dell’Argus che ne possedeva 60 — sottolinea l’esperto —. L’idea di restituire anche solo una parvenza di vista a persone che vivono da anni al buio è il sogno di qualunque medico. Il paziente operato vede già la luce e questo è davvero incredibile». La retina artificiale NR600 è indicata solo per i pazienti con forme gravi di retinite pigmentosa, cioè persone che hanno perso completamente la vista da entrambi gli occhi, una condizione che interessa oltre mille italiani.
La riabilitazione comincia dopo 2 settimane
L’impianto del device ripristina una parte della funzionalità retinica, ma non restituisce la vista. Il paziente può percepire la luce dopo l’intervento (come accaduto al 70enne operato al Gemelli), ma in genere il programma di riabilitazione viene avviato a distanza di un paio di settimane. Attraverso specifici esercizi, il malato reimpara a vedere attraverso una sorta di «occhio bionico»; viene inoltre perfezionata man mano la stimolazione degli elettrodi per ottenere la visione migliore possibile. Al termine di questo training, il paziente distingue la forma degli oggetti, riconosce il movimento, impara ad interpretare le nuove immagini, che vede in bianco e nero e «pixelate»; grazie alla plasticità neuronale, infine, il cervello impara pian piano a distinguere ciò che ha davanti. L’obiettivo, oltre a restituire una vista parziale, è migliorare le interazioni sociali e rendere la persona più autonoma possibile nelle attività quotidiane.
L’impianto non restituisce una visione normale
«I criteri di selezione per entrare in questo trial sperimentale sono però molto severi e restrittivi — afferma Rizzo —. Per questo tipo di impianti è fondamentale infatti un’accurata selezione del candidato, che viene inquadrato attraverso una serie di colloqui psicologici; questo serve a valutare sia le sue potenzialità di proseguire lungo un percorso riabilitativo che lo impegnerà a lungo, sia le sue aspettative. Perché l’impianto non va a restituire una visione normale, ma offre una visione artificiale, “bionica”. Il paziente deve essere preparato al fatto che quello che vedrà è una ricostruzione attraverso dei “fosfeni”, lampi di luce, che vanno a comporre un’immagine pixelata. La visione d’insieme viene ottenuta dal lavoro degli elettrodi presenti nel device, i cui parametri vanno tutti configurati con pazienza, attraverso una speciale applicazione». Anche in Italia è stata prodotta (e testata) una retina artificiale: è frutto del lavoro dei ricercatoti dell’Istituto di Tecnologia di Genova.
di Laura Cuppini
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